Parole vecchie per vita nuova

La preghiera di Gesù sviluppa e radicalizza gli elementi della spiritualità

di Matteo Ferrari
Monaco di Camaldoli

Image 026Cambio di congiunzione

La preghiera è un’esperienza fondamentale per Israele e per la primitiva comunità cristiana nel loro rapporto con Dio, come lo è per tutti i credenti di ogni luogo e tradizione religiosa. Il vocabolario della preghiera è molto ricco e articolato sia nel Primo che nel Nuovo Testamento. Ogni evangelista, narrando a modo suo l’evento Gesù Cristo, ha anche affrontato questo tema centrale attraverso una prospettiva propria. Certamente Luca è l’evangelista che affronta in modo più articolato questo tema, ma anche Matteo non manca di trattarne, inserendolo soprattutto nel primo grande discorso di Gesù, che costituisce il cuore e il fondamento dell’annuncio del vangelo.

Un primo veloce riferimento alla preghiera lo troviamo in riferimento alla “preghiera per i nemici” (Mt 5,44). Innanzitutto dobbiamo entrare nel senso di quelle che abitualmente sono dette “antitesi”, cogliendo nelle parole di Gesù l’intenzione di contrapporsi al giudaismo del suo tempo. In realtà non dovremmo tradurre con “ma io vi dico”, cioè con valore “avversativo”, bensì con “e io vi dico”, riconoscendo nelle parole di Gesù la volontà non di contestare i precetti del giudaismo del suo tempo, bensì per fornirne una interpretazione più radicale. Alla luce di questa prospettiva, anche questo primo riferimento alla preghiera in Matteo, assume il suo importante significato. La preghiera è messa in parallelo all’amore: “e io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano”. La preghiera è una modalità per esprimere l’amore più radicale, cioè quello per i nemici. Nel vangelo di Luca questo aspetto del valore della preghiera lo troviamo addirittura quando Gesù sulla croce concretamente prega per i suoi uccisori (Lc 23,34).

Dopo questo primo accenno alla preghiera, nel c. 6 troviamo la parte del primo vangelo nella quale questo tema viene affrontato in modo più esplicito e diretto (Mt 6,5-15). Nel vangelo di Luca l’insegnamento di Gesù sulla preghiera nasce da una domanda dei discepoli che, vedendo pregare il loro maestro, gli chiedono di trasmettere loro il suo modo di vivere, l’esperienza della preghiera. In Matteo non è così, ma il tema della preghiera si colloca nel contesto dell’insegnamento di Gesù sull’elemosina (Mt 6,2-4), sulla preghiera e sul digiuno (Mt 6,16-18). La preghiera viene quindi trattata da Matteo non in modo isolato, ma nel contesto di tre elementi centrali della spiritualità ebraica del tempo di Gesù. Per avere un’idea di qualcosa di simile potremmo far riferimento al testo delle Pirqè Avot (Detti dei padri) dove si parla di “tre colonne” del mondo. Un celebre detto, attribuito al Sommo sacerdote Simeone il Giusto, recita: “Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torà, e la ‘avodà (culto) e le opere di misericordia” (I,2). A questo proposito scrive Alberto Mello: «Possiamo forse ritrovare qui [cioè nel testo di Matteo] le stesse cose, benché disposte in un ordine inverso: il culto e la preghiera sono sinonimi; elemosina e opere di misericordia si equivalgono. Resta il digiuno che è altra cosa dallo studio della Torà, ma è una pratica religiosa che può predisporre proprio a questo (cf. Dt 8,3). Quindi si può emettere l’ipotesi che queste tre pratiche sono i ‘pilastri del mondo’ secondo Matteo» (Evangelo secondo Matteo, Qiqajon, Magnano Biellese 1995, p. 124).

Modalità da evitare

Riguardo alla preghiera, innanzitutto ci sono delle premesse che nascono dal confronto con delle modalità di pregare ritenute errate. In Mt 6,5 si dice di non essere «simili agli ipocriti» che pregano «per essere visti dalla gente». Gesù chiede ai suoi discepoli di “pregare nel segreto”. In questa richiesta si passa dal voi al tu, da “quando pregate” a “quando tu preghi” (Mt 6,6). Questa tensione ci dice che la preghiera è un fatto comunitario che fonda la sua autenticità su un’esperienza profondamente personale. La preghiera autentica non può convivere con l’ipocrisia.

In secondo luogo Gesù insegna a pregare senza “sprecare le parole”. Anche in questo caso si fa un confronto in negativo con “i pagani”, che “credono di venire esauditi a forza di parole”. La qualità della preghiera dei discepoli di Gesù non si misura a partire dalla quantità di parole e di formule, ma si fonda sul rapporto personale con il Padre.

Infine Gesù offre ai suoi discepoli un “modello” di preghiera, il Padre nostro. E’ impossibile commentare un testo così ricco in poche righe, ma possiamo ugualmente lasciarci colpire dalle espressioni e dai termini principali che in questo testo troviamo. Gesù non insegna qualcosa di nuovo ai suoi discepoli (cf. la preghiera ebraica del Qaddish), ma come un buon maestro consegna ai suoi discepoli le “parole” della tradizione di Israele in un modo che è “nuovo” e vivo. Anche questo è un fatto significativo: si insegna a pregare non consegnando parole nuove, ma una esperienza viva di preghiera. E così Gesù fa con i suoi discepoli.

Image 035Come Gesù col Padre

Vediamo allora alcuni elementi fondamentali. Innanzitutto Gesù insegna ai suoi discepoli a rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre”. Certo non è una novità per la Bibbia e per la tradizione ebraica rivolgersi a Dio chiamandolo Padre (cf. Is 64,7)). Tuttavia questo non toglie valore al fatto che Gesù insegni ai suoi discepoli a pregare prima di tutto rivolgendosi a Dio chiamandolo “Padre”. Infatti Gesù vuole che i suoi discepoli entrino nella medesima relazione con Dio che egli ha vissuto. Anche in questo caso non si tratta di “parole nuove”, ma di quella novità che consiste in quel rapporto unico con il Padre che Gesù vive.

La preghiera poi è fatta da una prima parte che è più nel segno della lode che della domanda: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà». Certo si tratta anche di una invocazione perché Dio continui a rendersi presente nella storia dell’umanità come ha fatto con i padri, ma è anche una confessione della sua grandezza. La prima parola che Gesù chiede di rivolgere a Dio è la confessione della sua misericordia. Poi viene la parte dedicata alla domanda, dove si chiede per prima cosa il pane “del giorno”. Una espressione che può rimandare alla manna nel deserto e che ci invita ad chiedere a Dio non qualcosa di straordinario o doni da accumulare, ma ciò che basta al sostentamento di un giorno, con la fiducia che Dio non ci abbandonerà mai e non ci farà mancare il pane del giorno successivo. In secondo luogo si chiede a Dio di rimettere i nostri debiti, cioè il perdono del peccato. Anche in questo caso non è solo una domanda di perdono, ma anche un impegno a vivere il perdono: «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». E infine la richiesta di non farci entrare nella tentazione e di liberarci dal male. Non è Dio che ci fa entrare in tentazione, ma lui può salvarci dal pericolo di lasciarci trascinare dal male.

Pochi tratti sulla preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli sono sufficienti per tracciare il volto della preghiera cristiana. Una preghiera che non è isolata ma sempre da vedere in un insieme più ampio, come una delle tre colonne su cui poggia il mondo. Una preghiera che fondamentalmente consiste nell’entrare nella preghiera stessa di Gesù. E’ bello e significativo un testo di Cipriano di Cartagine che esprime proprio questo, commentando il Padre nostro: «Preghiamo, fratelli carissimi, come ci ha insegnato Dio facendosi nostro maestro. Affettuosa e familiare è la preghiera in cui ci rivolgiamo a Dio con le sue stesse parole, in cui ci facciamo sentire attraverso la preghiera di Cristo. Che il Padre riconosca, quando noi preghiamo, le parole del proprio Figlio. Sia presente anche nella nostra voce colui che abita nel nostro cuore» (La preghiera del Signore, 3).