Per tanti l’impegno missionario nei mesi di agosto e settembre ha un nome: campo di lavoro e formazione missionaria a Imola, un appuntamento che ormai si ripropone da decenni e coinvolge volontari provenienti da molti paesi, oltre a vedere la collaborazione del Centro Missionario Diocesano di Imola e del Servizio Civile Internazionale; per questa occasione, ospitiamo il direttore, don Marco Bassi, che ci racconta i modi di incarnare la missione, incontrati in giro per il mondo.

Saverio Orselli

 

Rubrica in Missione 01 Etiopia (Ivano Puccetti)Paese che vai, missione che trovi

intervista a don Marco Bassi, direttore del Centro Missionario della Diocesi di Imola

Don Marco Bassi, da oltre otto anni, è stato chiamato a dirigere il Centro Missionario Diocesano di Imola. Da chi l’ha preceduto ha ereditato una realtà di grande collaborazione tra il clero locale, gli istituti, gli ordini religiosi e il laicato impegnati nell’attività missionaria. Da molti anni il campo di lavoro e formazione missionaria di Imola vede la collaborazione tra cappuccini e Centro Missionario. Sin dai primi anni Ottanta, la diocesi imolese ha avviato il Progetto Chiese Sorelle con la diocesi brasiliana di Santo André, nella città metropolitana di San Paolo e più precisamente nella periferia della città di São Bernardo do Campo, per il successo del quale è stato fondamentale il sostegno di tutte le componenti diocesane, oltre al coinvolgimento dell’intera società imolese. Poiché come responsabile del Centro Missionario don Marco ha visitato molti luoghi nei quali sono impegnati i missionari legati a Imola, gli abbiamo chiesto di raccontarci le diverse realtà che ha incontrato.

 Innanzi tutto quanti paesi hai visitato in questi anni al Centro Missionario Diocesano di Imola?

Sono andato otto volte a São Bernardo in Brasile, una in Amazzonia per trovare il nostro sacerdote don Nicola Silvestri; poi sono stato in Guatemala, in Messico, in Etiopia, in Kenya, in Ciad, due volte in India e in Bosnia.

 Tra tutti questi Paesi, quello che mi risulta meno scontato è la Bosnia.

Si tratta di un progetto di carità sostenuto della parrocchia di san Prospero, dove ero parroco, nato dopo la guerra dei Balcani grazie alla collaborazione con l’Azione Cattolica e l’ACR, a sostegno del lavoro di una suora che si trova a Livno, vicino all’altopiano di Kupres, che fu il centro degli scontri. Si tratta di una zona di grandi tensioni etniche e il lavoro di suor Salutaria è una sorta di scuola di pace: un progetto molto interessante, che sta andando avanti nonostante tante difficoltà. 

Vista la varietà delle esperienze e dei luoghi incontrati, mi piacerebbe sapere quali sono le differenze tra le diverse missioni.

La prima cosa che vorrei sottolineare è che ovunque mi è capitato di andare mi sono sentito a casa. Questa è una sensazione molto bella! Non c’è differenza tra i continenti o tra le lingue: in ogni luogo si è accolti con affetto e ci si sente parte di una storia… di una famiglia; certamente dalla comunità che ti accoglie, ma anche da parte della comunità ecclesiale. Davvero una bella sensazione. Tutto questo è ancora più bello, perché ti fa capire anche il senso della Chiesa cattolica: ci si sente “universali”.

Può sembrare scontato, ma l’India è una cosa, l’Africa è un’altra e l’America latina un’altra ancora. In America latina ho trovato una grandissima accoglienza, un calore umano impressionante… ci si sente più vicini, anche grazie alla lingua che permette di comunicare con più facilità. Anche la religiosità è molto più vicina alla nostra. L’Africa che ho conosciuto è tutto un altro mondo. Non solo dal punto di vista della religiosità dei cristiani, impegnati a volte a confrontarsi con forme di spiritualità antiche, ma forse anche perché nelle zone che ho visitato è forte una presenza islamica che comporta una certa diffidenza reciproca. L’India è più fascinosa, in un certo senso più misteriosa, anche in questo caso vi sono forti differenze culturali, specie in quelle zone in cui i cristiani sono in forte minoranza. La prima volta che sono andato e ho visitato alcuni villaggi completamente induisti, nei quali operano le suore, ho sentito da parte della gente una certa diffidenza.

Se in Guatemala o in Messico o in Brasile puoi permetterti di andare in giro anche da solo, questo in Africa o in certe zone dell’India è più difficile che accada. 

Image 175In tutte le missioni che hai visitato lavorano missionari italiani?

Non in tutte. Mentre sicuramente tutte sono collegate alla Diocesi di Imola. In India, ad esempio, siamo andati a visitare le missioni delle suore Figlie di San Francesco di Sales di Lugo, a seguito di un progetto organizzato in collaborazione tra Caritas diocesana, il Centro Missionario e la Congregazione dopo lo Tsunami devastante di qualche anno fa. Con noi c’era la Madre Generale, che è italiana, ma sul posto lavorano solo suore indiane; alcune di loro sono state in Italia e conoscono un po’ la lingua, ma in sostanza il progetto è portato avanti da loro. La stessa Congregazione, nata in Italia, è ora molto fiorente nel continente asiatico.

La cosa bella che si percepisce nel corso di queste visite - che si tratti di suore di San Francesco di Sales o di Santa Teresa o di altre congregazioni - è il valore della comune origine imolese. Questo fa sì che la mia presenza sia sentita come un gesto di attenzione della Chiesa di origine verso la nuova Chiesa.

È importante in questi viaggi essere molto attenti ad ascoltare e ancora più attenti a non giudicare, per capire bene le diversità dei doni dei carismi. In Messico, ad esempio, lavora padre Carlo Mongardi, un saveriano imolese che opera tra gli indios e nel tempo ha sviluppato un suo modo di affrontare la liturgia e l’inculturazione della fede con questa gente, per noi completamente sconosciuto. Giudicare il suo apostolato secondo i nostri criteri occidentali, italiani è un errore da evitare. Bisogna essere osservatori, attenti osservatori, senza cadere nella tentazione di giudicare con facilità e secondo i nostri criteri. Ovunque occorre un grande rispetto della cultura, delle tradizioni e delle forme della religiosità.

 Dicevi del saveriano tra gli indios; ci sono altre esperienze particolari che ti sono rimaste impresse o modi diversi di intendere la missione?

Da parte di tutti i missionari che ho incontrato c’è il desiderio di portare Cristo, un Cristo incarnato nella vita di quella gente, con attenzioni diverse. Ad esempio, diverso vivere in Messico dove operano le suore di Santa Teresa di Imola in una zona di frontiera. In una città tagliata in due da un muro con tanto di telecamere e filo spinato, dove molti cercano di attraversare la frontiera senza successo e importanti sono i problemi derivanti dal narcotraffico e dall’esigenza di accogliere i “respinti”, le suore si preoccupano di dare accoglienza a bambini abbandonati, cercando di essere segno dell’accoglienza di Gesù per gli ultimi. In Guatemala ho incontrato le suore del Sacro Cuore di Imola, impegnate nella “pastorale della riconciliazione degli animi” in zone di guerriglia. Altre suore in Africa lavorano nell’ambito sanitario, per dare assistenza a persone ammalate ed in particolate agli infetti dall’AIDS. In tutte queste esperienze quel che conta è portare il vangelo dentro la storia di quella gente; l’apostolato deve essere molto duttile, ma sempre finalizzato a mettere in opera il vangelo, facendo incontrare Cristo a ogni uomo, seppure con stili e strategie diverse. 

C’è molta differenza tra la missione interpretata al femminile e quella al maschile?

Mi viene da dire che le suore hanno più attenzione materna e forse più grinta. C’è una certa dolcezza e un sentimento di maternità nel portare l’annuncio. Ho incontrato suore che hanno fatto con dolcezza cose grandiose, dando prova di notevole tenacia: se non fossero state così determinate non sarebbero riuscite a fare quel che han fatto. Insomma, quando vado in questi posti è come se facessi gli esercizi spirituali, perché, se l’esercizio spirituale è l’incontro con Cristo, questo si rende possibile nella sua Parola e nei Sacramenti ma anche nel suo Regno. Sono boccate di ossigeno, di aria fresca. 

Mi piace l’idea di non giudicare con i nostri metri la realtà che incontri; ti riesce di fare la stessa cosa con la nostra, una volta rientrato da quei luoghi?

Anche qui sono chiamato a non giudicare e a lavorare con tanta pazienza, per portare il Regno di Dio. Uno dei doni che ho ricevuto, in quindici anni di sacerdozio, è la pazienza e il rispetto dei tempi della gente. Persone e situazioni, se accompagnate e sostenute con chiarezza di idee ma allo stesso tempo con tanta comprensione e disponibilità nel rispettare i tempi di ognuno, pian piano raggiungono buoni risultati… senza che ci sia bisogno di giudicare. 

Hai visitato anche la missione dei cappuccini in Etiopia. Cosa ti ha colpito di questa esperienza missionaria?

Dell’Etiopia ricordo la grande disponibilità dei padri ad andare incontro alla gente, anche a costo di dover coprire distanze enormi, con il desiderio di visitare anche le comunità piccole e lontane, con particolare attenzione per i bambini. Penso a padre Renzo, a padre Pacifico e a padre Raffaello, chiamati a vivere anche in situazioni di grande solitudine, pronti a fare di sé quel che dice san Paolo quando afferma «mi sono fatto tutti a tutti, per portare Cristo in ogni luogo», cercando di incarnarsi con tanta pazienza nella storia di quella gente. E poi m’ha colpito anche la semplicità francescana della vita che conducono, favorita dall’ambiente povero. Un conto è essere sacerdote a São Paolo in Brasile o a Città del Messico, un altro discorso è esserlo in un villaggio dell’Etiopia! 

Queste differenze sono interessanti: la radice è la missione, ma i luoghi in cui si sviluppa sono completamente diversi, alcuni molto simili alla nostra realtà, altri meno. Ciò che li rende comuni è il bisogno di una presenza…

Cambiano le esigenze, cambiano i bisogni e sono diversi anche i modi di dare risposta. Ho visto con piacere che alcune congregazioni hanno fatto la scelta di non impegnarsi nella realizzazione di grandi opere, per non “congelare il carisma” e non rischiare di concentrarsi su un obiettivo, perdendo di vista la complessità della situazione in continua evoluzione. Il rischio è di impegnarsi nella realizzazione di qualcosa che dopo pochi anni non serve più e che comunque è da mantenere anche se non risponde più ai bisogni. È difficile anche affidare queste opere alla Chiesa particolare, perché non sempre alle comunità locali queste opere interessano. 

In questi casi i cappuccini in genere, quando lasciano una missione, affidano le opere al clero locale, perché non vadano perdute.

Di per sé è il metodo giusto, ma ci sono situazioni in cui questo non è possibile. Penso alla scuola professionale di São Bernardo in Brasile, che negli ultimi quindici anni ha avuto un ruolo fondamentale, ma che ora, col cambiare della realtà brasiliana, dovrebbe essere riconvertita. Avere un grande stabile impostato per questo tipo di lavoro, importantissimo ma che di fatto ora non è più necessario, costituisce un problema e limita la disponibilità al rinnovamento. Quella che era una risposta alle favelas, oggi che le favelas non ci sono più, viene meno. Intendiamoci, la povertà in quella zona rimane: non ci sono più le baracche ma grandi case popolari, con una promiscuità impressionante. La disoccupazione è calata, ma rimane la violenza, la delinquenza. Ciò richiede un cambiamento anche nella missione: se vent’anni fa era impellente la formazione al lavoro, ora è necessaria una “scuola di socializzazione” per aiutare la gente a vivere insieme nel rispetto dei valori e nella fratellanza. 

Image 180Imola da molti anni vive l’esperienza missionaria chiamata “Chiese sorelle”; come la descriveresti?

L’esperienza “Chiese sorelle” è molto bella, perché ha permesso alla nostra diocesi di non rinchiudersi in se stessa. Ecco, negli otto anni di direzione del Centro Missionario, ho sperimentato proprio il fatto che la nostra diocesi è molto aperta; sono veramente tanti i missionari legati al nostro territorio e tante le esperienze missionarie che ci coinvolgono.

Ciò che chiamiamo “Chiese sorelle” è molto bello anche perché si tratta di un’esperienza di comunione. Bisogna che impariamo a uscire dai nostri recinti, per fare comunione così come è accaduto in Brasile. Le congregazioni imolesi che sono là, anche se ognuna ha le proprie opere, vivono in comunione, e le ricadute ci sono anche qua, perché ci si sente parte di un progetto comune. 

“Chiese sorelle” sono Imola e Santo André in Brasile?

Oltre che con la diocesi di Santo André, da qualche anno con la prelazia di Sao Felix do Araguaia, nello stato brasiliano del Mato Grosso, dove vive un nostro prete diocesano, don Nicola Silvestri. Dopo vent’anni di esperienza a São Bernardo si è spostato in Amazzonia, rappresentando in qualche modo il desiderio del nostro vescovo che la stessa Chiesa brasiliana si faccia a sua volta sorella di altre Chiese, con una apertura missionaria nuova. Il desiderio di allargare l’abbraccio tra Chiese sorelle, aggiungendo a Imola e Santo André anche Sao Felix risponde anche alla maggiore attenzione che l’episcopato brasiliano ha nei confronti sia dell’Amazzonia che della missione all’interno del paese. Ora che la Chiesa di Santo André ha raggiunto ormai una certa strutturazione ecclesiale, è necessario seguire con più attenzione quelle Chiese che sono più povere di sacerdoti e mezzi per l’evangelizzazione.

Recentemente, a seguito della presenza in Imola di due sacerdoti di Kandjrapally, sta iniziando pure un rapporto fraterno tra la nostra chiesa particolare e quella indiana, per uno scambio di risorse e di esperienze. 

Torniamo all’Africa: hai visitato l’Etiopia, il Kenya e il Ciad, il paese che confina con la Repubblica Centrafricana, dove sono presenti i cappuccini dell’Emilia-Romagna. Quale realtà hai trovato là?

Ho visitato nel sud del Ciad una suora comboniana di Castel Bolognese, la mia attuale parrocchia, che lavorava in un ospedale in condizioni di estrema povertà. L’unico ospedale della zona, dove vedi la gente arrivare su carri trainati da mucche, è in un’area in cui sono molto sentite le tradizioni antiche al punto che in caso di malattia prima si va dallo stregone e poi dal dottore. Qui ci si deve confrontare con una visione culturale che a volte non rispetta la dignità della persona. Ho visto una giovane che, a seguito di un parto difficile, veniva curata con una pappina a base di erbe, il tutto ricoperto con una pelle di lepre, con la conseguenza di infezioni tali da imporre l’asportazione dell’utero, che significa l’impossibilità di future maternità, e quindi, per la cultura africana, la perdita di dignità, mentre se fosse stata curata subito non avrebbe avuto problemi. 

Il lavoro di coordinamento delle varie realtà che operano a sostegno delle missioni è difficile?

No, anzi è abbastanza facile, ovviamente soprattutto con chi accetta di collaborare: molti missionari - direi quasi tutti - si sentono parte di questa storia, ci tengono a mantenersi in contatto con noi, e quando vengono per i periodi di riposo passano a trovarci. È una pastorale molto stimolante che ci fa capire la bellezza della Chiesa. È certo anche molto impegnativo: devi essere il centro per tanti raggi diversi, perché ogni realtà ha una sua impostazione missionaria, a volte molto differente dalle altre.

Anche con le associazioni, i movimenti e i gruppi che lavorano qui è abbastanza facile collaborare. In generale noto che il fatto di andare a trovare i missionari là dove svolgono il loro apostolato, spalanca molte porte qui. Si sviluppa un dialogo che poi è difficile fermare. 

Per concludere, dell’esperienza “Sì Africa”, che abbiamo presentato in MC 5 del 2011, cosa pensi?

Mi è piaciuta molto e mi dispiace che una esperienza così, capace nel suo piccolo di aprire tante finestre sul mondo, si sia un po’ fermata, nonostante il grande entusiasmo con cui era nata. Questo forse perché ci ritroviamo tutti davvero tante cose da fare e da pensare, e a volte i tanti impegni della pastorale ordinaria impediscono di vivere a tempo pieno per esperienze come queste, che pure hanno bisogno di essere sostenute.

Io sono molto contento di essere al Centro Missionario e continuo, anche ora che mi è stata affidata una grande parrocchia fuori Imola, a portare avanti il lavoro, fintanto che mi verrà richiesto, vedendolo non come un impegno in più da rincorrere, ma come una opportunità da coltivare, per essere io stesso evangelizzato.