Deo Gratias a tutti

San Felice da Cantalice, il frate del popolo

di Mauro Jöhri
Ministro generale dei frati minori cappuccini

Image 219Era il 22 maggio 1712 quando papa Clemente XI innalzava agli onori degli altari il cappuccino frate Felice da Cantalice. A trecento anni di distanza, il Ministro generale dei cappuccini, fra Mauro Jöhri ha inviato una lettera circolare a tutto l’Ordine per ricordare la figura di questo confratello, il primo santo nella storia dei cappuccini. Questa ricorrenza coincide con l’anno dell’84° Capitolo generale «diventando così occasione privilegiata per richiamare le radici della nostra storia e aprirci ad accogliere lo Spirito per essere memoria vivente della presenza di Cristo nel mondo», scrive il Ministro generale nella lettera di cui proponiamo ai lettori alcuni passaggi.

Felice era nato nel 1515 a Cantalice, cittadina della valle reatina. Si fece cappuccino nel 1543. Giorno dopo giorno, per quarant’anni (dal 1547 al 1587), da umile questuante, percorse le vie di Roma, bussando ad ogni porta per chiedere l’elemosina, ma allo stesso tempo lasciando la parola bella del vangelo detta come lui sapeva dire: cantando con i bambini, ascoltando chi gli confidava le proprie pene, accogliendo quanto gli veniva offerto. Raccontano le cronache che il suo sguardo era sempre rivolto a terra, ma questo non gli impediva di vedere e di cogliere il bisogno di chi gli stava di fronte: alleviare il dolore, confortare l’afflitto, curare il male fisico o morale. Chi incontrava il questuante cappuccino non partiva mai a mani vuote. e le mani di frate Felice erano quelle che avevano ricevuto dalla Madre di Dio il Bambino Gesù, da lui teneramente abbracciato: così ce lo ha consegnato l’iconografia!

 

Uomo del popolo e uomo di Dio

Lo stare quotidianamente in mezzo alla gente di ogni condizione sociale lo portava ad incontrare le tante miserie spirituali e materiali del suo tempo. Tutto raccoglieva nella sua bisaccia e, rientrato in convento, la svuotava nelle mani del suo guardiano: c’era il pane, c’erano le fave, c’era quanto gli era stato dato, ma c’erano anche tutte le disgrazie che aveva visto, i bambini che aveva fatto cantare, il pianto di tanti, il buon cuore di chi non gli aveva negato l’elemosina. Tutto e tutti fra Felice, contento, portava in chiesa e per loro offriva al Signore la sua preghiera e il resto della sua giornata cioè, di solito, quasi tutta la notte. A questo aggiungeva le penitenze di ogni genere per impetrare l’intervento di Dio per tutti, poveri o ricchi, tutti bisognosi della misericordia di Dio.

Lo stare in mezzo alla gente non lo distraeva dalla sua unione con Dio, anzi era il suo modo di contemplare il mistero dell’amore di Dio per gli uomini. Potremmo dire che fra Felice era un contemplativo sulle strade. In mezzo alla gente stava con allegria, ilare, in modo semplice, caratteristiche che lo rendevano vicino a tutti. Un vero frate del popolo! Lo conoscevano come frate Deo gratias. Era, infatti, questo il suo motto, il suo modo di ringraziare per l’elemosina ricevuta. Se poi qualcuno si burlava di lui e lo giudicava un pazzo, egli ne godeva interiormente e riusciva a conquistarsi l’amicizia anche di questi, perché li accoglieva con la pazienza di Dio che sa aspettare il peccatore e mai smette di amarlo.

Era talmente contento della sua condizione di fratello questuante che soleva dire: «Io sto bene, meglio che lo papa. Il papa ha delle fastidi et travagli, ma io mi godo questo mondo: et non cambiaria questa sacoccia col papato e col re Filippo insieme». Il suo modo diretto e schietto lo portava a scambiare delle battute col papa Sisto V o con san Filippo Neri, come anche con il futuro cardinale Cesare Baronio o con san Carlo Borromeo.

La sua spiritualità, apparentemente tanto semplice, era incentrata solidamente sulla persona di Cristo, di cui ammirava in particolar modo il presepe e la croce. Teneva in grande venerazione la Madonna e san Francesco, praticando una preghiera dagli accenti fortemente affettivi e, al momento di ricevere la comunione, si commuoveva fino alle lacrime. Tutto ciò fece di lui un vero figlio di san Francesco, un frate capace di andare verso tutti, ricchi e poveri, cardinali e mendicanti, dotti e illetterati e sempre con lo stesso atteggiamento: accoglienza di chi incontrava, rispetto per l’altro, amore per la persona che gli stava davanti.

I frati, che gli vissero accanto e poterono beneficiare dal suo quotidiano peregrinare per le vie di Roma, sperimentarono il suo zelo per la preghiera chiamati da lui sia nel bel mezzo della notte per la preghiera di mattutino sia all’alba del nuovo giorno per quella delle lodi. Furono però ugualmente sorpresi quando alla sua morte videro l’interminabile processione di gente che accorreva a venerare la sua salma. C’erano tutti, i bambini e i cardinali, la gente semplice e il nobile, il mendicante e papa Sisto V. Ora era Roma che andava dal santo frate questuante invertendo quel cammino che per tanti anni frate Felice aveva fatto andando in mezzo alla gente.

In quel giorno che vide frate Felice nascere al cielo anche se la gente era tanta intorno alle sue spoglie mortali, la voce era una sola e lo proclamava “santo”. I miracoli che si diceva avevano segnato il tempo della sua vita terrena ora venivano raccontati: erano molti. Anche tra i suoi confratelli c’era chi rimaneva stupito. Felice dava così la sua ultima lezione, quella che autenticava la sua intera esistenza: tutto aveva vissuto in umiltà, nascondendo quanto il Signore concedeva alla sua preghiera, alle sue mortificazioni, al suo consegnarsi senza trattenere nulla per se stesso, ma tutto chiedendo e donando per il bene di chi durante la giornata aveva incontrato.

 

Image 221Il suo messaggio per noi

La caratteristica di san Felice, quella che lo ha consegnato alla nostra memoria, è il suo essere stato un frate, un frate questuante. Avvicinava la gente per chiedere, per mendicare, ma soprattutto per donare: donare Gesù, donare la pace interiore attinta dalla preghiera, donare saggi consigli suggeriti dalla ricca esperienza di vita. Nella povera e laboriosa famiglia dalla quale proveniva, aveva imparato la preziosa lezione di farsi dono ad ogni bisognoso, secondo il prezioso monito del Maestro Gesù: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non di rado, però, fra Felice aveva fatto anche l’esperienza del duro rifiuto o di una porta sbattuta in faccia, ma la sua risposta era anche in questi momenti: «Deo gratias!». Rinnovava così la perfetta letizia incarnando nella propria vita quanto aveva imparato da san Francesco.

Vi è poi in san Felice una seconda caratteristica: la straordinaria capacità di accogliere tutti e tutto e di trasformare ogni situazione in preghiera da innalzare al Signore nel segreto della notte.

Inoltre era un religioso sempre disponibile e accogliente. L’accoglienza faceva di lui una persona ricercata da tutti. Non perché aveva un titolo oppure un ruolo certificato ed approvato dalla società, ma perché aveva il titolo di autentico credente in Cristo certificato dal suo modo di vivere. Poteva dire di Dio che era il suo unico bene!

Infine, sappiamo che i contemporanei di san Felice, uomini potenti e gente semplicissima, colti e analfabeti, tutti lo ricercavano in primo luogo per la sua santità, perché era autenticamente un uomo di Dio. Era uomo di Dio e frate della gente.

San Felice, il primo cappuccino ad essere canonizzato, ha aperto una lunga schiera di frati che al pari di lui sono andati alla scuola del serafico padre san Francesco. Essi rappresentano la vera ricchezza del nostro Ordine, ma sarebbe grande vergogna per noi se ci limitassimo a raccontare e a predicare le cose da loro compiute, mentre essi le fecero per davvero! (cf. l’Ammonizione VI di san Francesco: FF 155). In quest’ottica il ricordo di san Felice diventa per noi oggi un forte richiamo a vivere anzitutto la nostra consacrazione religiosa, i voti, con estrema coerenza. In un mondo che ha smarrito il senso di Dio, che non parla più di Lui e tantomeno a Lui, noi siamo chiamati a diventare un richiamo fortissimo a riscoprire queste dimensioni essenziali di ogni vita. Siamo chiamati a farlo con umiltà e letizia.