Image 261Scavare una buca

un libro di Cristiano Cavina
Marcos y Marcos, Milano 2010, pp. 205

 

Ci sono almeno due buone ragioni per leggere l’ultimo libro di Cristiano Cavina. Rigorosamente senza nessun ordine prestabilito, perché motivazioni, pensieri ed emozioni si aggrovigliano talmente tanto da apparire strade inestricabili, buie e pericolose, (per tutti quelli che non si chiamano Necci e non portano una sciarpa dell’Inter al collo, come lo zio Jair). La prima buona ragione è che ci riconcilia con quelli che asfaltano le strade, guidano i camion, raccolgono la frutta ed entrano nei bar con il giubbotto fosforescente e gli scarponi antinfortunistici impolverati. Ci fa ricordare che esistono per davvero e che il loro lavoro serve a soddisfare spesso e volentieri le nostre comodità. Magari riesce anche a farci riflettere sui nostri bei discorsi ecclesiali, politici e sociali, mentre la vita delle persone si consuma e corrode, scavando buche quotidiane dove fa presto a calare la luce del sole. Non è la storia di un posto lontano abbandonato da Dio, ma la vicenda di un paese, Casola Valsenio, e di un paio di famiglie, dove genitori e figli non si parlano, a volte per via di una borsa nuova, a volte per qualcosa di più profondo, come una buca. Piano piano Cavina sta come componendo un’involontaria e irreale Spoon River del Paese di Tolintesàc, dove trovano spazio i piccoli esordienti, i grandi diventati adulti alle prese con il futuro e gli adulti logorati, costretti a riprendere in mano il passato. È un romanzo “nostro”, quasi a ricordarci che le belle storie nascono ovunque, se si cerca bene fra i drammi che ci circondano e le speranze che non riescono a soccombere. La seconda buona ragione è che tutti noi scaviamo delle buche. C’è chi scava per bene, perché conosce i segreti della montagna, e chi va troppo veloce. Ma il rischio, a quella profondità, è sempre dietro l’angolo. Perforiamo e frantumiamo la realtà, per stare meglio o per stare ancora peggio, in equilibrio precario fra l’invincibilità di chi domina una montagna e la fragilità di chi la sente crollare su di sé. Forse, però, non è vero che bisogna solo scavare. A furia di scavare, si arriva all’inferno. Magari, basta una parola in più e ci si può fermare prima. (Daniele Fabbri)