È da 61 anni che il SAE organizza una Settimana del Dialogo Ebraico-Cristiano per superare barriere e scoprire la ricchezza di una comune eredità di fede all’insegna della comprensione, del rispetto e dell’amicizia tra ebrei e cristiani: piccoli mattoni che costruiscono ponti di speranza e pace.

a cura di Barbara Bonfiglioli

 Oggi, 1700 anni fa

Nicea, le chiese e la nostra vita

 di Laura Caffagnini
giornalista, addetta stampa del Segretariato Attività Ecumeniche (Sae)

 La 61a sessione di formazione ecumenica del Sae (Segretariato attività ecumeniche) svoltasi al Monastero di Camaldoli dal 27 luglio al 2 agosto, intitolata “Da Nicea ad oggi: ecumenismo tra memoria e futuro”,

ha mostrato come si possa parlare di un evento così lontano nel tempo – quel Concilio si è svolto 1700 anni fa – restando con i piedi nell’oggi e guardando verso il futuro. E che un tema del genere, sapientemente articolato, non interessa solo studiosi affermati, ma può coinvolgere anche le nuove generazioni in formazione.

 La cultura media

I giovani sono stati una presenza vivace e poliedrica alla sessione. Alcuni, come Cristina Benvissuto, Avraam Asan ed Erika Huamani Rimachi, sono studenti all’Istituto universitario avventista “Villa Aurora” di Firenze; Marco Tarallo ha fatto esperienza nella Gioventù francescana e nella Fuci; Allegra Tonnarini ha ricoperto il ruolo di presidente nazionale della Fuci; Alessandro Andreotti frequenta una chiesa pentecostale Elim; Daniele Parizzi, valdese, è da undici anni nel Sae.
Con altri giovani sono intervenuti assiduamente e con interessanti osservazioni nei dibattiti seguiti alle tavole rotonde, hanno cantato nel piccolo coro della sessione e si sono impegnati nei laboratori. Nella casa Paolo VI, vicina alla Foresteria, hanno avuto modo di affiatarsi gli uni con le altre e di condividere uno spazio comune. Abbiamo chiesto loro cosa li ha colpiti e ispirati della settimana.
Marco, dottorato in studi storici, sottolinea «la quantità e la ricchezza di cammini diversi, non solo confessionali ma di vita: insegnanti, professori universitari, persone impegnate nel volontariato, medici. Ho conosciuto esperienze di ogni genere e una grande ricchezza liturgica. Io sono cattolico, mi ha particolarmente colpito il vespro ortodosso che mi ha aiutato a decostruire stereotipi che avevo».
Allegra, insegnante alle scuole medie e dottoranda in letteratura italiana, osserva che «l’impostazione del Sae è molto culturale: ruota attorno all’organizzazione delle sessioni, una serie di convegni e relazioni. Effettivamente la cultura è uno strumento, oggi come allora, per costruire dei ponti tra le diversità dei percorsi. La cultura è capace di fare dialogare persone di generazioni diverse, che appartengono a confessioni diverse e hanno idee diverse. È lo strumento ad hoc per realtà di pluralismo come il Sae. Questa è la bellezza della sessione, secondo me».
Alessandro, dottorando e revisore di tesi di laurea, ritiene che «proprio in questo momento storico, dilaniato da conflitti, avere l’opportunità che abbiamo avuto noi di intraprendere un dialogo interdenominazionale e interreligioso possa costituire un punto di partenza per imparare una metodologia esistenziale basata sul dialogo e applicabile anche in ambiti non strettamente religiosi. Nei conflitti in atto c’è una forte componente religiosa. Ho molto apprezzato il coraggio degli organizzatori di fare dialogare alti rappresentanti delle comunità ebraiche italiane e persone che rappresentano il popolo palestinese. Ne è nato un dibattito franco, e credo che questo sia da valorizzare perché in tutti i contesti associativi che frequento c’è molta paura di fare qualcosa del genere. Credo che questo debba essere valorizzato. Per costruire la pace si fa anche così».
Daniele, insegnante di scuola primaria, si ricollega alle parole dell’amico: «Non solo mi ritrovo molto in quello che ha detto Alessandro, ma aggiungerei una sfumatura. Secondo me, come cristiani e cristiane, siamo chiamati proprio a questo. Non è solo un impegno come cittadini e cittadine del mondo, ma è la nostra vocazione. L’annuncio di Cristo deve passare attraverso la scoperta di forme di dialogo, di pacificazione, di incontro con quello che è altro da noi. Per me il Sae è particolarmente importante perché, oltre a ricercare ciò che abbiamo in comune, non rinuncia a trattare anche temi divisivi. Condivide non solo idee, visioni e teologie diverse, ma anche il vissuto emotivo che emerge dall’incontro di queste differenze. In questo spazio, la sofferenza che ci provoca l’incontrare il diverso non solo può essere tollerata, ma può essere anche compresa e condivisa, e questa, secondo me, è la grande forza di un’associazione come il Sae».

 Una condivisione import/export

Spiega Herica, peruviana, che sta studiando per conseguire la laurea magistrale: «Per me stare a Camaldoli è stata una bellissima esperienza perché in sud America non ho mai trovato la possibilità di una convivenza con persone di altre religioni. Questo evento non è solo un incontro dove poter riflettere su diverse tematiche, ma anche dove trovare una chiesa senza denominazioni in cui condividere tutto: il luogo, il cibo, le feste, gli argomenti. È una forma di apprendimento che mi piacerebbe portare al mio paese».
Cristina, appassionata di illustrazione editoriale, materia che intreccia con la teologia, si focalizza sull’aspetto umano: «Mi colpisce tanto trovare un ambiente così aperto a conoscere l’altro, a entrare nel mondo dell’altro. Spesso siamo preda di tabù ed etichette che ci condizionano nell’approccio. Scoprire l’altro è un esercizio per liberarsi di questi lacci, per conoscere il cuore dell’altro, ciò in cui crede, e per trovare bellezza, perché alla fine ciò che ci porta a stare qui insieme è l’amore per Dio, per qualcuno che ci ispira dall’alto a essere comunione qui sulla terra».
«Mi ritrovo con ciascuna delle cose dette dai miei amici e amiche», afferma Avraam, «Ho iniziato a frequentare il Sae per curiosità e continuo a frequentarlo perché ho trovato un clima che incoraggia la ricerca e l’approfondimento. Grazie al Sae qui ho trovato un ambiente sicuro dove si possono approfondire e ricalibrare le proprie teologie confrontandole con quelle dell’altro e dell’altra, e forse, soprattutto in questo clima di disperazione, è necessario frequentare ed essere parte attiva di questo tentativo sociale di comunicazione, dialogo e intermediazione, anche soprattutto perché è nella speranza che si trova pace. La speranza non arriva da noi stessi ma parte da chi ci sta di fronte, ci guarda e dialoga con noi». 

 Una teologia che conosce la vita

La sessione è iniziata da una ricognizione storica e teologica del Concilio di Nicea, presentata da Emanuela Prinzivalli e Fulvio Ferrario, per poi allargarsi a un’attualizzazione nel contesto ecclesiologico, nel rapporto tra Scritture e culture, tra religione e politica, tra fede e vissuti personali, nelle pratiche di traduzione e interpretazione e nei tentativi di riscrivere confessioni di fede che tengano conto della realtà in cui ci si trova. Non è mancato uno sguardo sulla tragica situazione in Palestina e Israele con un excursus a cura di Anna Foa e interventi di rav Joseph Levi e dell’imam Izzedin Elzir. Da ognuno l’appello a tenere vivo il dialogo per superare il clima di odio e violenza che sta distruggendo l’umanità dei contendenti.
Alessandro ha apprezzato il fatto che la sessione abbia evidenziato la complessità dell’evento Nicea. «Si tratta di dibattiti per niente chiusi, che richiedono approfondimenti. C’è una continuità tra i nostri antenati, che nel IV secolo si ponevano determinate questioni, e noi che 1700 anni dopo dovremmo continuare a esaminare quello che abbiamo tralasciato: temi come la Trinità, il ruolo dello Spirito Santo, la figura di Gesù Cristo. E poi è stato interessante che gli organizzatori abbiano lasciato spazio non solo a una riflessione di carattere accademico, ma anche ai vissuti di relatori e relatrici con storie che si intrecciavano con la teologia e il linguaggio del Simbolo niceno-costantinopolitano. Mi ha affascinato non solo il tema, che conoscevo attraverso i miei studi, ma anche il modo di affrontarlo in questo specifico contesto». Chiosa Daniele: «Questa è una sfida, spesso vinta al Sae: parlare di temi complessi anche con relatrici e relatori molto colti trovando uno spazio di discussione che sia accessibile a persone con livelli culturali, background ed età differenti».