Particolarmente affollata è la rubrica conventuale di questo numero. Come ormai da tradizione, il 3 luglio i frati cappuccini dell’Emilia-Romagna, delle Marche e della Toscana si sono trovati a Camerino per ricordare la nascita dell’Ordine, 497 anni orsono; la direttrice della Biblioteca Teologica Città di Reggio ci parla di Rosmini e di padre Placido da Pavullo; ricordiamo infine fra Carlo Folloni, che ha portato in paradiso le sue risate contagiose.
a cura della Redazione di MC
Qui iniziò un’altra volta
Festa della scintilla, Camerino 3 luglio 2025
di Piero Vivoli
frate cappuccino, guardiano della Fraternità di Montughi a Firenze
«Di questa costa, là dov’ella frange / più sua rattezza, nacque al mondo un sole, / Come fa questo talvolta di Gange. / Però chi d’esso loco fa parole, / Non dica Ascesi, ché direbbe corto, / Ma Oriente, se proprio dir vuole».
Con queste parole il Sommo Poeta nel Canto XI del Paradiso volle consegnare ai posteri l’evento straordinario della nascita di Francesco di Assisi. Là, dove la costa del monte Subasio si fa più dolce, Dante immagina che per un istante tutto si sovverta, l’Occidente diventi Oriente, la culla del «pianeta che mena dritto altrui per ogni calle» (Inferno - Canto I) e proprio lì, in un giorno imprecisato del 1181, un nuovo “sole”, Francesco appunto, sorga inatteso e propizio, ad irradiare luce, calore e fuoco ad un mondo bisognoso di rinnovamento.Un nuovo sole per la Chiesa, un nuovo sole per il mondo.
Una storia, un sole
Un sole che, come tutti i soli, proietta se stesso nel tempo e nello spazio, e così - continua Dante - «‘l venerabile Bernardo si scalzò prima, [...] Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa (la santa Povertà n.d.r.) piace» (Paradiso, Canto XI). La storia di Francesco è una storia di fecondità spirituale. Potremmo dire, riprendendo l’immagine del sole come fuoco, che la storia del Poverello di Assisi in fondo non sia stata altro che un incessante scoppiettio di scintille, una delle quali, diversi secoli dopo la sua morte, ebbe a cadere in un luogo remoto delle Marche, Camerino. Lì, Ludovico e Raffaele da Fossombrone raccolsero un fardello pesante e leggero ad un tempo, dando inizio, forse loro malgrado, a quella riforma cappuccina, che un drappello di frati provenienti dalle Marche, Emilia-Romagna e Toscana, il 3 luglio di quest’anno hanno inteso celebrare, raccogliendosi intorno al proprio Ministro Generale, nel luogo dove tutto ebbe inizio esattamente 497 anni orsono.
Nella sua Vita Prima, il Celano, ricordando il modo in cui i frati incontrandosi si rapportavano l’un l’altro agli albori del francescanesimo, scrive: «Ed erano casti abbracci, delicati sentimenti, santi baci, dolci colloqui; modesto il sorriso, lieto l’aspetto, l’occhio semplice, l’animo umile, il parlare cortese, gentili le risposte, identico l’ideale, pronto ossequio e instancabile reciproco servizio» (FF 387). Una descrizione che di buon grado, magari spogliata da un poco di enfasi agiografica, può tuttavia ben restituire il clima della giornata, complice l’amenità del luogo. L’arrivo dei frati, l’accoglienza fraterna, uno spuntino e poi il primo impegno, l’incontro con il Ministro, immersi nel verde, a riflettere forse un po’ presuntuosamente sulle “Sfide e prospettive per i Cappuccini nella Chiesa e nel mondo di oggi”. Ma d’altra parte che senso avrebbe commemorare una nascita semplicemente come memoria di un evento, chiusi in un passato, sebbene ricco di bellezza e santità, senza provare ad immaginare un futuro nel quale poter ancora avere qualcosa da dire di bello e di santo?
Guardare e tornare
Le suggestioni proposte dal Ministro Generale sono state sostanzialmente due. La prima: Guardare con speranza al futuro. È indubbio che l’epoca nella quale abitiamo è un’epoca di cambiamenti radicali e celeri, impensabili fino ad alcuni decenni fa. Basti pensare al tema così moderno e ancora per molti aspetti imprevedibile dell’intelligenza artificiale; alla rapidità di cambiamento delle sensibilità, degli stili di vita, delle società contemporanee; alla facilità di movimento di grandi masse di persone, almeno in alcune parti del mondo, che rendono necessario un continuo e faticoso riequilibrio di relazioni interpersonali, di ripensamenti identitari. Tutto questo dinanzi ad una Chiesa tutt’altro che restia al cambiamento, secondo il principio dell’incarnazione, ma con tempi inadeguati alla celerità del mondo. Spesso riecheggia nell’ambito ecclesiastico il mantra di un Concilio, il Vaticano II, che ancora deve essere recepito fino in fondo, quando forse si imporrebbe la necessità, per star dietro ai mutamenti dei tempi, di un nuovo Concilio, magari già vecchio non appena concluso. Questa discrasia tra un mondo in rapida evoluzione ed una Chiesa encomiabile nelle analisi, ma in affanno circa le sintesi, fa sì che vi sia una reale percezione di inadeguatezza, di crisi, di stanchezza, di crollo “di un modo di essere e di vivere nella Chiesa”, lungi tuttavia dall’essere un crollo “della Chiesa”. Al contrario – evidenziava il Ministro – vale la pena soffermarsi sui segni di speranza nella Chiesa, che dicono una comunità ancora viva, come ad esempio il fenomeno tutto francese di un ritorno prepotente alla fede da parte di molti giovani.
Per quanto ci riguarda – e questo è il secondo pensiero sottolineato dal Ministro – è necessario tornare costantemente ad una autenticità di vita circa la nostra vocazione, secondo la chiamata che ciascun frate ha ricevuto. In questa linea il Ministro ha voluto mettere in evidenza alcuni aspetti che sostanziano una tale autenticità vocazionale. In primo luogo ha voluto sottolineare l’elemento identitario fondamentale di ogni francescano e di ogni cappuccino, così come Francesco lo propone nella Regola bollata: «La Regola e vita dei Frati Minori è questa, cioè osservare il santo vangelo» (FF 75). È un richiamo in primo luogo al rapporto che ogni frate è chiamato ad avere con Dio, nella precisa consapevolezza che là dove vi è una relazione spirituale più o meno agonizzante, allo stesso tempo vi è una autocondanna all’insignificanza vocazionale. Particolarmente suggestiva e forte è stata l’osservazione per cui le fraternità meno felici sono quelle nelle quali si prega meno. E se è vero che vi è una fatica intrinseca nella fedeltà alla vita di preghiera, alla fedeltà alla vita spirituale, è altrettanto vero che, in ultimo, esse sono l’oggetto principale della ricerca dei giovani di oggi, sempre più ricchi di terra, ma poveri di cielo.
Noi, fratelli più piccoli
In secondo luogo il Ministro ha voluto ricordare quale elemento identitario della nostra vocazione quello della fraternità. Troppe derive pastorali impediscono spesso di vivere una autentica vita fraterna. Troppi individualismi, troppa ricerca di una realizzazione personale, che distrae dal porre il “fratello” nella categoria del “dono”, così come Francesco riconosce nel Testamento: «E dopo che il Signore mi dette dei fratelli» (FF 116). “Dono”, ovvero responsabilità e non mera condizione di possibilità affinché ciascuno possa realizzare sé stesso.
Povertà e minorità costituiscono il terzo elemento identitario della vocazione francescana, dove, se da una parte il tema rimanda ad un corretto uso del denaro, dall’altra esso impone una scelta di campo ben precisa e inalienabile: quella di stare accanto agli ultimi da ultimi. Agli ultimi della storia, chiunque essi siano, qualunque sia il lebbroso che oggi bussa alla porta, e senza gerarchie, perché l’ultimo è sempre ultimo, qualsiasi sia il volto con il quale si presenti. Da ultimi, abbandonando ogni ombra di potere, disposti ad andare ovunque lo Spirito chieda di andare, come espressione della donazione sincera di sé a Dio ed ai fratelli.
Speranza e identità. Questa dunque la cifra di una riforma che alle soglie dei cinquecento anni continua a interrogarsi sul senso della propria storia e ancor più del proprio futuro, senza dimenticare di guardare giorno dopo giorno a ciò che Dio le pone innanzi per ripetere il proprio sì a Lui.
Volendo concludere, così come abbiamo iniziato, ovvero citando il Sommo Poeta, non posso che far riferimento, per descrivere l’epilogo di una giornata all’insegna della riflessione fraterna, della convivialità e della preghiera, all’espressione che Dante verga nell’incontrare uno degli ultimi personaggi del suo peregrinare infernale. Si tratta del Conte Ugolino e del celebre verso: «La bocca sollevò dal fiero pasto» (Inferno, Canto XXXIII), non tanto per rievocare lo sciagurato divorar di un traditore, quanto per rinnovare quel senso di unanime soddisfazione per una giornata che non ha sicuramente risolto le sfide di domani, ma almeno ha dato conto di una scintilla di sole ancora luminosa e ardente dopo la veneranda età di 497 anni.