Tra i 65.000 e i 100.000 anni fa, parte della specie homo sapiens iniziò un percorso migratorio che la portò a diffondersi e diversificarsi sull’intero pianeta fino all’epoca odierna. Molti studiosi addebitano questa spinta migratoria a una catastrofe vulcanica. Siamo dove siamo e quel che siamo per gli effetti congiunti di una catastrofe e di una migrazione. Anche in carcere si finisce in seguito a una catastrofe (esistenziale) che ci ha forzati a migrare in una “terra” che non è la nostra. Quando parliamo di migranti parliamo anche di noi.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 

Sono io 

Chi accoglie lo straniero diventa più vero

 DIETRO LE SBARRE

La legge che (non) ti accarezza

Io mi chiamo Athos, nome antico, ma la mia storia è recente, segnata da un errore che mi ha trascinato in Via del Gomito 2, al carcere della Dozza.

Sono nato e cresciuto in Italia, tra dialetti, scuole pubbliche e sogni piccoli. Avevo tutto e pensavo di sapere chi ero, finché ho vissuto nella sezione penale con chi desidera ’“essere italiano” come si desidera l’aria quando manca. «Se tu sei nato qui, sei italiano. Io pure. Ma la legge dice che tu lo sei, e io no», parole di Tarek, mio compagno tunisino.
Nel silenzio del carcere, ogni parola pesa. Ho conosciuto uomini nati a Palermo, cresciuti a Bologna, che parlano in dialetto bolognese meglio di me, ma non hanno la cittadinanza. Gente che ha studiato, lavorato, amato, ma che per l’Italia resta “straniero”. «Mi chiamano extracomunitario. Ma la mia comunità è questa. Dove altro dovrei andare?» mi ripetono spesso i magrebini nati e sposati qui, con figli nati in Italia. Queste frasi non mi hanno solo colpito: mi hanno cambiato, ho visto il volto nudo della negazione, l’ingiustizia che si nasconde dietro un foglio che dice “permesso di soggiorno”.
Io sono italiano e ho sbagliato. Loro sono italiani e sono invisibili. Questo mi fa più male della mia pena. Ius soli darebbe cittadinanza a chi nasce in Italia. Ius scholae a chi cresce e studia nel Paese. Parole fragili, perse nel rumore della politica, dal carcere, sembrano candele accese nel buio, un atto di giustizia, una carezza data a chi non ha mai avuto un abbraccio dallo Stato.
Ho visto uomini brillare dentro una cella, perché nonostante tutto portano cultura, rispetto, dignità. La cittadinanza non dovrebbe essere una medaglia da meritare, ma un riconoscimento di quello che già si è. La giustizia non dovrebbe punire chi non ha nemmeno avuto il diritto di scegliere. In Italia circa un terzo dei detenuti è straniero, alla Dozza di Bologna addirittura la metà. Tra questi, ce ne sono che da anni vivono in Italia, parlano la nostra lingua, ma restano cittadini “non riconosciuti” dallo Stato. Il carcere, per loro, non è solo privazione della libertà, ma anche alienazione da un Paese che li ha ospitati ma mai pienamente accolti.
Il rapporto con i detenuti extracomunitari in carcere è ancora segnato da ostacoli sistemici legati a esclusione sociale, difficoltà di comunicazione e carenza di strumenti di inclusione. La riforma della cittadinanza è vista dagli stessi detenuti come una chiave per una partecipazione egualitaria e una reale opportunità di cambiamento, sia “dentro” che “fuori” dal carcere. In un contesto carcerario, la tutela dei diritti dei detenuti stranieri assume un significato particolarmente incisivo, perché spesso mette in luce contraddizioni, squilibri e ingiustizie latenti nell’intero sistema.
Affrontare la questione dei loro diritti spinge il dibattito sulla giustizia sociale su un livello più concreto e radicale, evidenziando la necessità di politiche inclusive, di servizi che superino le barriere linguistiche e culturali e di un sistema penale non solo sanzionatorio ma realmente rieducativo. In questo senso, la tutela dei diritti in carcere non è un “tema di nicchia”, ma un “banco di prova cruciale per la coerenza di ogni società democratica con i propri valori fondanti”.
In carcere, il mancato riconoscimento di diritti fondamentali amplifica la consapevolezza della propria condizione di “straniero” o “non pienamente cittadino”. Un’effettiva tutela dei diritti contrasterebbe, a mio parere, le narrazioni che alimentano stigma, paura e discriminazione verso lo straniero. Dove è massima la limitazione della libertà l’uguaglianza dei diritti rovescia stereotipi e promuove un’idea di giustizia non punitiva, ma abilitante.

Athos Vitali

 Saladin, mio fratello

Il fenomeno migratorio, purtroppo, è una realtà che affligge molti paesi e mina le speranze di coloro che fuggono da guerre e povertà. Dietro questo dramma spesso si cela un vero e proprio business gestito da trafficanti di esseri umani. Questi criminali ricattano coloro che affrontano il viaggio della speranza, estorcendo somme esorbitanti. Non contenti, spesso ricattano anche le famiglie rimaste a casa e trattengono i documenti dei migranti, rendendoli completamente succubi. Va sottolineato che la riuscita di questi viaggi non è affatto garantita, anzi!
Sono tante le motivazioni e le situazioni che spingono uomini e donne a partire. Succede anche che le famiglie spesso paghino ingenti somme agli scafisti per far partire i figli più forti. Come mi ha spiegato anni fa mio “fratello” Saladin, lo fanno perché questi hanno maggiori possibilità di superare il viaggio e, una volta a destinazione, di trovare un lavoro e inviare denaro a casa per il sostentamento dei familiari.
Le navi della speranza trasportano donne, bambini e persone in fuga dalla guerra, ma non mancano anche i casi di delinquenti che fuggono perché ricercati nel proprio Paese. Una volta arrivati in Italia e smistati negli hub di accoglienza, molti di loro cadono preda della malavita, finendo per delinquere e, inevitabilmente, terminando in carcere il viaggio. Molti vedono l'Italia solo come un crocevia per raggiungere altri paesi dell'Unione Europea, un obiettivo che spesso non riescono a realizzare, finendo per restare negli hub sovraffollati o venendo rimpatriati.
Come in Italia, anche in molti altri Paesi europei i governi vedono l’immigrazione come un problema. Il problema potrebbe diventare opportunità se venissero definite politiche di collaborazione fra gli stati e di vera integrazione delle persone che cercano un futuro diverso. Il problema è complesso e articolato ma non può essere affrontato solo con misure restrittive o repressive.

Piombo

 Un solo passo

Una persona da disprezzare e controllare, a cui negare la possibilità di stabilirsi in un'altra nazione. Per altri un individuo con pari dignità che va aiutato e integrato. Per la stragrande maggioranza, infine, un estraneo. Si tratta di pensieri diametralmente opposti, accomunati però da un punto fondamentale: l'etichetta del "diverso". Dall'odio all'accoglienza, passando per l'indifferenza, tutti giudicano il migrante come un'entità diversa da sé. Una figura mai vista per ciò che realmente è: un essere umano.
Il principio che accomuna questi diversi approcci è un senso di superiorità, un “nazionalismo” che porta a considerare il forestiero un "diverso". Da qui si sviluppa un dibattito non sulla persona, ma su una entità astratta. Per superare questi modi di pensare, dobbiamo abbandonare ogni sentimento nazionalista e abbracciare appieno la globalizzazione a cui tutti siamo soggetti. Consideriamo il paradosso di un iPhone: è un oggetto prodotto in Cina e utilizzato da milioni di persone in America e questo non è un problema per nessuno. Eppure, invece, ci poniamo il problema se, al posto di un oggetto, dalla Cina arriva un essere umano.
Tutta questa riflessione mi porta a chiedermi quale sia il mio posto in questo mondo. Credo che, se dovessi rinascere, vorrei farlo da migrante. Mi sento affine al pensiero di Primo Levi, che in Vizio di forma scriveva: «Preferirei nascere a caso e non tra i privilegiati di una nazione perfetta, non tra quelli destinati alla servitù o alla contesa fin dalla culla, se una culla avrò. Preferirei nascere povero, indiano o nero, senza indulgenze e senza condoni».
Se l'uomo è artefice del proprio destino, voglio tracciare da solo il mio cammino, mi basterà anche un solo passo perché la vita mi renda vincitore.

Luca Tosi