Non ti comprendo, ma ti abbraccio

La vulnerabilità è la necessaria condizione del fiducioso

 di Chiara Francesca Lacchini
suora clarissa cappuccina a Fiera di Primiero

 Diverse sono le radici etimologiche a cui far risalire la parola fiducia: una indoeuropea che rimanda all’atto di abbassare le difese e di consegnarsi, fiduciosi, al prossimo.

Un’altra, più direttamente legata alla nostra lingua, è nella parola latina fides, che consiste nel riconoscere l’affidabilità dell'altro e ci introduce nella consapevolezza che la fiducia si gioca nell’ambito delle relazioni, si conquista sul campo, richiede l’incontro e il contatto con gli altri. Siamo nell’area semantica della fede, ma mentre quest’ultima è sentita un po’ come un atto assoluto, alla fiducia occorre dare tempi, spazi, conoscenze, incontri, emozioni, sentimenti. Più che un atto istintivo è un processo in cui abbiamo bisogno di familiarizzare, di esporci, di condividere, di saggiare la lealtà di chi ci sta davanti.
Quando abbiamo stabilito intimità è come se diventassimo più sicuri che, se il depositario della nostra fiducia dovrà decidere per noi, lo farà nel nostro interesse. Che la fiducia sia, a differenza della fede, un atto sospeso lo si capisce chiaramente alla luce dello smarrimento e del dolore che causano i tradimenti, sempre in agguato per chi compie questo salto nel vuoto. Per questo abbiamo imparato e continuiamo ad imparare che la fiducia che ci viene chiesta deriva dalla pratica, lenta e faticosa, della conoscenza. E nell’ambito delle relazioni comunitarie attiene allo spazio faticoso e fruttuoso della vita fraterna.

 Una mancanza

Il contesto in cui Francesco chiede ai fratelli di manifestare l’un l’altro con fiducia le proprie necessità è quello del capitolo IX dal titolo “Del chiedere l’elemosina”, e il clima di scambievole fiducia richiesta è motivato dal poter sovvenire alle necessità gli uni degli altri, proprio come fa una madre con il proprio figlio. Il bisogno di fiducia sembra qui legato alla consapevolezza dei nostri limiti, allo sperimentare che non siamo tutto e non abbiamo tutto; questo ci impone di cercare qualcuno di cui fidarci. Vivere l’esperienza della mancanza ci spinge a cercare alleanze o per sovvenire alle reciproche necessità o per meglio portare il peso di ciò che ci manca. Se fosse solo così la radice della fiducia potrebbe sembrare dunque di natura “economica”.
Ma dentro la dinamica della vita fraterna francescana sappiamo che tutto questo è inscritto nelle leggi di grazia e di dono della vita insieme, dove il bisogno di accogliere l'altro e l’essere “mancanti” e insufficienti a noi stessi può diventare la spinta per imparare sempre più a diventare fratelli e sorelle, e la fiducia diventa quel bene prezioso che consente di perseguire insieme obiettivi significativi, di vivere il vangelo abbracciando il bene comune come orizzonte della nostra realizzazione, affidandoci gli uni agli altri non solo per ricevere aiuto ma per sperimentare insieme la gioia del Regno. Dare fiducia e rispondere alla fiducia ricevuta è di per sé un atto di bene che, coltivato nel tempo, ha il potere di trasformarsi in relazioni durature, che creano legami di collaborazione capaci di produrre beni che, da soli, non potremmo raggiungere. Le relazioni basate sulla fiducia diventano canali di una fecondità più grande, promuovendo un’autentica comunione in cui i frutti di bene si moltiplicano; mettono in circolo un movimento di riconoscimento e di rispetto che riguarda tanto chi si fida quanto chi riceve fiducia.

 Molte fragilità

“Esercitarci” nella fiducia reciproca presuppone che accogliamo anche la possibilità di essere vulnerabili; perché consegnare nelle mani di altri necessità e bisogni propri significa uscire allo scoperto quanto ai nostri limiti. Ma nell’economia della fede diventa un modo per testimoniare che la trama della nostra vita è dentro la bellezza della sapienza divina, il cui principio paradossale è che il potere è reso perfetto nella debolezza.
Il vangelo ci insegna a diffidare di una fede priva di vulnerabilità, e spesso siamo chiamati a convertirci dalle difese che ergiamo per non rimanere esposti; cerchiamo istintivamente di non renderci vulnerabili attraverso atteggiamenti di potere, di influenza, di sicurezza fisica e via dicendo. E il vangelo spinge verso scelte di tipo opposto e solo chi ha contemplato profondamente la vulnerabilità di Dio può trovare un senso nell’abbracciare una fede che esige dalla propria vita una simile dedizione. Paolo lo ha capito bene; perciò ha potuto affermare: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (1 Cor 2,2). E ancora: «Noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1,23-24).
Anche Francesco sembra aver compreso la lezione se, all’inizio del cap. IX della Regola non Bollata, chiede ai frati di guardare all’umiltà e alla povertà del Signore nostro Gesù Cristo per imparare ad accontentarsi dell’occorrente; di essere contenti nel vivere tra persone poco rilevanti e disprezzate, deboli e povere; di non vergognarsi a chiedere nel momento del bisogno; di manifestare con fiducia l’uno all’altro le proprie necessità e traccia un altro solco tutto francescano di intendere la fraternità, legato al senso evangelico della vulnerabilità dove tutti siamo fragili, bisognosi, con necessità di vario genere di cui non vergognarsi e che possono diventare occasione di comunione, solidarietà, condivisione, affidamento fiducioso, opportunità evangelica di forza piuttosto che debolezza da nascondere, terreno fertile per la crescita spirituale e la costruzione di legami autentici.

 Un grande abbraccio

Condividere non solo il pane, l’acqua, la casa, il tempo, ma anche le proprie crepe, le proprie paure e le proprie difficoltà crea un legame di fiducia e di empatia, aprendo la strada alla reciproca comprensione e al sostegno. Non si tratta di ostentare la debolezza, ma di riconoscerla e di sapere che senza gli altri siamo un po’ meno umani. Assumere questo stile ci può dare il coraggio e la determinazione di cercare l’aiuto divino e la solidarietà dei fratelli e delle sorelle, anche quando i limiti rischiano di offuscare la luminosità della fiducia. Mi piace ricordare un pensiero di Martin Buber: «Il mondo non è comprensibile, ma è abbracciabile». Ecco, la fiducia è quell’atteggiamento simile ad un abbraccio, che sfida anche la fatica di non comprendere l’altro ma comunque di tenerlo davanti al proprio orizzonte, di considerarlo parte ineludibile della propria esperienza umana, anche quando l’altro, che ci è più che mai prossimo, rimane altro e non cessa mai di essere irriducibile a noi. I nostri percorsi di vita talvolta conoscono la fatica della delusione e l’amarezza di dire a se stessi: “non comprendo”. In quel momento saper dire: “la cosa più importante non è capire ma abbracciare”, può salvarci dalla tentazione della sfiducia. Perché la grandezza dell’abbraccio sta nel suo arrivare, spesso, dove la comprensione non arriva ma l’amore comunque resta.
C’è un modo infallibile per non soffrire, per non rimanere feriti, per non essere vulnerabili, ed è quello di non amare, di non esporsi, di non discendere, di stare sempre ai piani alti a guardare la vita che passa. Integri ma sfiduciati. Questa logica non fa la salvezza. Ed è una logica che non appartiene a Francesco d’Assisi, sempre appassionato amico e fratello dei suoi fratelli, fino ad assumere le estreme conseguenze di una incomprensione che non sempre è riuscita a diventare abbraccio, come quel giorno a Santa Maria degli Angeli, dove ciò di cui aveva bisogno era un riparo per la notte, che osò chiedere ai suoi in carità, e la cui risposta fu una porta chiusa. La reazione di Francesco rimase nell’ordine della fiducia grata - non senza dolore - riconoscendo in quella porta chiusa un’occasione preziosa per rimanere fratello.