Che storia (d’amore)!
La fede non può fondarsi su se stessi, ma attinge dalla relazione con Dio
di Valentino Romagnoli
biblista, direttore del Postulato interprovinciale di Scandiano
Spesso occorre ripartire dalle basi, non dar nulla per scontato.
Ogni anno, alcuni giovani si affacciano al nostro convento per iniziare il cammino del postulato, la prima tappa dell’iter formativo alla vita religiosa cappuccina. Perché imboccano questa strada impegnativa? Cosa li spinge? E soprattutto su cosa pongono la loro fiducia? Da un giovane che intraprende un percorso di questo tipo ci si aspetterebbe un po’ di chiarezza ma spesso la realtà dice il contrario, anzi ogni volta ci accorgiamo che sul concetto stesso di fede circolano “poche idee ma confuse”. Ecco perché, all’inizio di ogni anno formativo, ripartiamo proprio da lì, dalle basi, anzi, dalla base.
Solide fondamenta
Nel linguaggio biblico, base e fiducia sono strettamente collegate al punto da essere, per certi aspetti, uno sinonimo dell’altro. Nella nostra concezione l’esperienza della fede (pístis in greco) ha a che fare soprattutto con il mondo intellettivo, è qualcosa che si esercita con la ragione e l’intelletto. Ma nel mondo biblico dell’AT è diverso: il termine ebraico per indicare la fede è ’aman (da cui amen) che esignifica “essere saldo”, “appoggiarsi con fiducia”. Avere fede, quindi, non è tanto aderire a un sistema di verità, ma mettere la propria vita su un fondamento stabile. È come costruire una casa sulla roccia, non sulla sabbia: è questo il senso profondo della parabola con cui Gesù conclude il discorso della montagna (Mt 7,24-27). La fede non è una fuga nel cielo, ma una base solida per affrontare le tempeste della vita.
Per aiutare i postulanti a comprendere il senso autentico della fede cristiana allora proviamo a tornare alla fonte, alla massima espressione di fede nella vita degli uomini, cioè la santità, e per fare questo ogni anno rileggiamo l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo” del compianto papa Francesco. È un testo semplice ma profondo, come ha saputo essere papa Bergoglio, che restituisce alla santità il suo volto più umano e accessibile. La santità non è un’idea astratta, né un traguardo per pochi eletti, ma una vocazione per tutti, che si realizza nel quotidiano. Il Papa insiste sul fatto che si tratta di un cammino concreto, fatto di pazienza, di piccoli gesti, di attenzione agli altri.
Nello stesso documento, Francesco mette in guardia contro due tentazioni sempre attuali: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Si tratta di due antiche eresie che oggi assumono forme nuove, sottili, ma non per questo meno pericolose. Entrambe ci allontanano dal cuore del vangelo, cioè dalla fiducia in Dio e nella sua grazia.
Pelagianesimo e gnosticismo
Pelagio era un monaco vissuto tra il IV e il V secolo. A lui si attribuisce una dottrina secondo la quale l’uomo, grazie alle sue forze naturali, può raggiungere la perfezione morale e ottenere la salvezza, senza bisogno dell’aiuto divino. A una prima impressione i pelagiani possono risultare giusti e retti, non eludendo le proprie responsabilità; in realtà però questa dottrina è quanto mai contraria allo spirito della vita cristiana. Essa altro non è che una spiritualità del “fare”, basata sull’impegno personale, sulla forza di volontà, sulla disciplina. Il problema è che, in questa visione, Dio diventa superfluo. La grazia non è più necessaria, perché l’uomo può salvarsi da solo. In chi o su cosa pongono la loro fiducia i pelagiani? Su cosa costruiscono la casa della loro vita? Su sé stessi, sulla loro buona volontà, sulla loro presunta superiorità morale che li fa guardare tutti dall’alto.
Il pelagianesimo è stato condannato dalla Chiesa fin dai primi secoli — in particolare dal Concilio di Efeso nel 431 — ma non è mai del tutto scomparso. Anzi, oggi si presenta in forme nuove: nel culto dell’efficienza, del perfezionismo, della performance. Anche nella vita ecclesiale possiamo riconoscerne le tracce: quando si pensa che basti osservare le regole, seguire tutte le pratiche religiose, essere “coerenti”, per essere a posto con Dio. Ma questo è un inganno sottile. Il vangelo ci mostra che non sono i perfetti ad essere salvati, ma i peccatori che si aprono alla misericordia. Nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14), è proprio l’uomo che si riconosce fragile e bisognoso di perdono a tornare a casa giustificato.
Chi cade nella trappola del pelagianesimo moderno finisce per confidare in sé stesso, nel proprio sforzo morale, nella propria “superiorità spirituale”. Ma il cristianesimo ci insegna esattamente il contrario: «perché la salvezza non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm 9,16).
Diversa, ma altrettanto insidiosa, è la tentazione dello gnosticismo, antica corrente filosofico-religiosa che già nei primi secoli del cristianesimo proponeva una salvezza riservata a pochi, basata su una conoscenza segreta (gnosis). Lo gnostico divide radicalmente spirito e materia, anima e corpo, e spesso considera la dimensione concreta della vita come qualcosa da superare o disprezzare.
Papa Francesco descrive lo gnosticismo moderno come «un atteggiamento che chiude la fede nel soggettivismo, dove tutto si riduce a emozioni, idee, riflessioni personali. È una fede senza carne, senza popolo, senza impegno. È una spiritualità che non si sporca le mani, che non entra nella storia. Lo gnostico di oggi è chi pensa che basti “sentire” qualcosa dentro, coltivare pensieri elevati, avere visioni profonde… ma senza lasciarsi toccare dagli altri, senza coinvolgersi con le sofferenze reali». Questa filosofia potrebbe sembrare distante, retaggio di un’epoca passata, ma in realtà è quanto mai attuale nella nostra cultura digitale.I giovani vivono sempre più in un mondo virtuale, dove le relazioni diventano liquide, il corpo è assente, e l’esperienza umana rischia di ridursi a un insieme di stimoli disincarnati. Anche l’uso dell’intelligenza artificiale, se non ben orientato, può contribuire a una progressiva disumanizzazione. Si parla, si chatta, si condivide… ma si è sempre più soli, sempre più scollegati dalla concretezza della vita. All’epoca di Gesù non esisteva internet, ma anche allora le relazioni potevano essere disincarnate; pensiamo, per esempio, alla “parabola del buon samaritano” dove i “sacri ministri” non si sporcano le mani per contaminarsi (Lc 10,25-37), o a quella del giudizio universale di Mt 25 dove il criterio ultimo sarà quanto abbiamo concretamente aiutato il prossimo.
Una fede incarnata
Ogni qualvolta leggiamo le pagine di questo documento, più di un postulante si sente tirato in causa: chi perché si ammazza di lavoro per cercare di andar bene a Dio e agli uomini; chi invece perché punta tutto sulla preghiera, la liturgia, la spiritualità, magari dimenticando di pulire i bagni comuni o provando fastidio nel servizio ai poveri.
Ma forse il disagio dei giovani postulanti è un po’ anche il nostro, spesso oscillanti tra queste due tentazioni, le quali non sono poi così differenti. Infatti a ben vedere pelagianesimo e gnosticismo hanno alla radice la stessa pretesa di fidarsi più di sé stessi che di Dio: il pelagiano si affida alla propria forza, lo gnostico alla propria conoscenza, dimenticando entrambi che la salvezza è dono e non conquista. Il cristianesimo non è né un’etica rigorista né una mistica disincarnata. È una storia d’amore tra Dio e l’uomo, vissuta nella carne, nella storia, nelle relazioni: «il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14), non pensiero o sensazione.
Gesù ci insegna che la fede autentica è quella che si esprime nell’amore concreto, nella misericordia, nella prossimità. «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio» (Mt 7,21). E la volontà del Padre è che nessuno si perda, che tutti siano salvati. Non per i loro meriti, ma perché Dio è infinita bontà.
Speriamo che i postulanti lo capiscano e speriamo di capirlo, almeno in parte, anche noi.