Bibbia: da libro sacro a parola di Dio, passando per codice culturale, la confusione è tanta. L’analfabetismo in materia è “biblico”: un po’ di chiara riflessione sembra urgente.

a cura di Barbara Bonfiglioli

 Un sole che forse risorge

La Bibbia, le mode… e noi?

 di Piero Stefani
teologo e biblista

 Sui media si è tornati a parlare, a gran voce, della Bibbia.

Periodicamente nell’ordine naturale si presentano eclissi solari e lunari. Non sono anomalie, tuttavia restano eventi eccezionali. Nel mondo culturale italiano rispetto alla Bibbia le cose stanno all’opposto: le eclissi sono la norma, mentre lo sfolgorare solare o lo stesso pallore lunare costituiscono eccezioni. 

Si parla di Lui o di noi?

La recente inflazione biblico-mediatica è dovuta, in buona parte, al travolgente successo del libro di Aldo Cazzullo, Il Dio dei nostri padri. Il grande romanzo della Bibbia (HarperCollins, Milano 2024), prolungatosi in quattro puntate televisive su La7 e in una copiosa serie di recensioni, interviste, presentazioni. Sono vampate. Ora è il turno della Bibbia; quasi cinquant’anni fa (1976), un altro giornalista, occupandosi di Gesù, andò incontro a un esito editoriale ancor più clamoroso (Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori vendette più di un milione di copie, mentre il libro di Cazzullo è fermo – si fa per dire – a 400.000).  Occorre però annoverare anche un secondo fattore: la ridda di commenti suscitati dall’intervista del ministro Valditara che annunciava l’inserimento della Bibbia nei programmi scolastici.
A proposito del Dio dei nostri padri, la prima domanda è chiedersi di quale Bibbia si tratti. Il libro di Cazzullo canonicamente è riconducibile alla Bibbia cattolica; peraltro i riferimenti a Gesù sono scarsi (ricavati dalle profezie), mentre si ignorano tutti gli altri personaggi del Nuovo Testamento. Con ogni evidenza, una simile considerazione appare marginale. La questione fondamentale sta nel fatto che la Bibbia sia a tal punto presentata sotto la cifra della narrazione da ricevere la qualifica di romanzo. È istruttivo confrontare le dichiarate motivazioni dell’autore con le modalità con le quali esse si sono concretizzate. Cazzullo ha più volte affermato di aver iniziato a leggere la Bibbia al capezzale del padre malato. L’agnostico, e l’autore si dichiara tale, si interroga; per lui, secondo il memorabile detto di Rabelais, l’aldilà è il «grande forse». È una consuetudine di Cazzullo porre la domanda ai suoi interlocutori di come essi immaginino il dopo morte; l’interrogativo è stato rivolto anche a suo padre che gli ha risposto di essere convinto, non già sicuro, che esista l’aldilà.
Prendere in mano la Bibbia per sondare temi legati alla vita ultraterrena e scoprire che il Libro dei libri è costituito, in larga misura, da grandi narrazioni che si preoccupano di tutto tranne di quanto c’è dopo la morte, deve essere stata una sorpresa. In una intervista ad Avvenire (8 aprile 2025), Cazzullo, affastellando un po’ tutto, ha affermato: «La Bibbia è un testo sacro, è la radice della cultura dell’occidente ed è anche un capolavoro letterario. Non voglio insegnare la Bibbia ai biblisti, io sono solo una persona che racconta delle storie. Ma dietro deve esserci una idea, ed è che qualsiasi speranza dopo la morte non può prescindere dal Dio della Bibbia, del Primo e del Secondo Testamento. Il fatto che dica che siamo tutti fatti a immagine e somiglianza di Dio e che tutti siamo discendenti da Eva, significa che siamo tutti uguali e fratelli, ed è straordinario». Questa sbilanciata sovrapposizioni di piani ben si confà all’attuale fase culturale caratterizzata dalla presenza di un irrisolto e dilagante melting pot.
Nel prologo del suo libro, Cazzullo afferma che: «La Bibbia è l’autobiografia di Dio». Ma le cose stanno proprio così? J.A. Heschel, che di Scritture ebraiche se ne intendeva, scrisse che: «la Bibbia è un’antropologia di Dio piuttosto che una teologia dell’uomo». Essa, cioè, comunica i modi con cui Dio presenta la creatura umana piuttosto che le maniere nelle quali quest’ultima parla di Dio. «Essere fatti tutti a immagine e somiglianza di Dio» è un’antropologia divina e non già un’autobiografia. Per affermare questa prospettiva occorre però credere nella rivelazione; ossia aver fiducia tanto che Dio non si riduca unicamente a un personaggio letterario quanto che Egli comunichi alle creature umane le sue visioni della realtà e i suoi voleri.

 Sotto la bandiera niente

Il dibattito sulla presenza della Bibbia nella scuola ha preso le mosse da una intervista rilasciata dal ministro Valditara a gennaio. Molti hanno parlato, pochissimi hanno letto la bozza del progetto, apparsa solo in tempi successivi. Se avessero atteso, il caso si sarebbe sgonfiato. Si tratta di una tipica vicenda massmediatica in cui è obbligo parlare prima di sapere. Una volta lette, le corpose Nuove Indicazioni 2025 Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione. Materiali per il dibattito pubblico non dischiudono grandi orizzonti. Per confermarlo, riportiamo qualche stralcio da un    documento approvato dall’assemblea di Biblia, associazione laica di cultura biblica, svoltosi a Firenze il 29 marzo scorso: «In prima istanza occorre osservare che la sbandierata enfasi sullo studio della Bibbia si riduce a ben poca cosa. L’unico riferimento esplicito alla Bibbia si trova nel capitolo relativo alla Storia […]. Sotto la voce “Conoscenze” e in relazione alla classe prima (sic!), si specifica: “Le radici della cultura occidentale attraverso alcune grandi narrazioni: per esempio Bibbia, Iliade, Odissea, Eneide (in forma molto semplificata)” (p. 72). Posto che la Bibbia è uno dei codici fondamentali della cultura occidentale, ci chiediamo se, appellandosi a “una forma molto semplificata”, si sia consapevoli del carattere plurale della Bibbia, a livello testuale (i diversi canoni dei libri) e a livello ermeneutico (le diverse interpretazioni), fattori che influenzano anche le narrazioni apparentemente più semplici. Senza dimenticare il perdurante influsso di precomprensioni apprese in giovanissima età (basti pensare alla inesistente mela mangiata da Adamo ed Eva) […] Come far dialogare i racconti biblici con quelli contenuti in altri testi religiosi, a cominciare dal Corano? Tenuto conto della significativa presenza di alunni musulmani nella scuola primaria, si tratta di una domanda tutt’altro che astratta. […] Leggendo le Indicazioni si ha l’impressione di una certa dose di superficialità nell’approccio e, sottotraccia, si scorge il pericolo di utilizzare il testo biblico all’insegna di una identità fin troppo assertiva e autoreferenziale tipica di un Occidente che si avverte minacciato e invaso».

 Letteraria ed ecumenica

In tutt’altro ambito si situa la Traduzione letteraria ecumenica del Nuovo Testamento promossa dalla Società Biblica in Italia (Società Biblica, Elledici, 2025), impresa alla quale hanno partecipato la Chiesa cattolica, due Chiese ortodosse (patriarcato ecumenico e rumena), quella veterocattolica e un nutrito gruppo di Chiese della Riforma. Il progetto ha radici lontane (per il Giubileo del 2000 fu pubblicato il Vangelo di Giovanni) e ha fronde future: è in cantiere la traduzione dell’Antico Testamento. Quanto caratterizza la traduzione sono due aggettivi. «Ecumenica» lo si comprende subito ed è la convinzione (o quanto meno l’auspicio) che le Chiese, in un periodo contraddistinto più da tensioni e ripiegamenti che da speranze, ritrovino la loro unità sul fondamento della parola di Dio.  Ma «letteraria»? Per comprenderlo bisogna ricorrere alle parole di Luca Mazzinghi (attuale presidente della Società Biblica): «Questa traduzione si distingue da quella Interconfessionale in lingua corrente (Tilc; 1978-1984) per due ragioni: prima di tutto è un progetto a maggior respiro ecumenico, includendo Chiese come quelle ortodosse che non avevano aderito alla Tilc. Poi, perché, mentre la Tilc è una traduzione cosiddetta “dinamica”, che privilegia cioè la comprensibilità nella lingua di arrivo (l’italiano), sacrificando a volte il testo originale, questa è piuttosto una traduzione “formale”, ovvero “letteraria”: ciò significa che privilegia la lingua di partenza, il greco del Nuovo Testamento, cercando tuttavia di offrire un italiano corretto e scorrevole» (Avvenire, 25 febbraio 2025). Simbolicamente si potrebbe sostenere che, per alimentare l’unità, occorre ritornare all’origine, invece che piegare il messaggio iniziale alle nostre attuali esigenze o rivendicazioni identitarie.