And be free
La ricerca della libertà (ma quale libertà?) nella storia della musica
di Walter Gatti
giornalista esperto musicale
La musica leggera – rock o pop, canzonetta o canzone d’autore che dir si voglia – ruota da sempre attorno ad alcuni temi:
l’amore, la morte, Dio, la libertà. Se togliamo questi argomenti l’insieme delle musiche in circolazione si decurta di un buon 90%, riducendosi a pochi vagiti più o meno inconcludenti. L’ultimo dei temi indicati poi, la libertà, è uno di quelli che ha richiamato e richiama l’attenzione di autori piccoli o grandi, di band e di interpreti, dalla metà del Novecento ad oggi.
La libertà: bel tema, da qualsiasi parte lo si voglia prendere e in qualsiasi accezione la si voglia intendere. Può essere fugace od eterna, uno sprazzo emozionale o una necessità esistenziale. Libertà di sbronzarsi oppure anelito verso l’infinito. Può essere la necessità di rompere le catene di una storia asfissiante, come cantavano i Queen di Freddy Mercury in I Want to Break Free («Voglio liberarmi, voglio liberarmi / Voglio liberarmi dalle tue bugie / Sei così soddisfatto di te stesso / che non ho bisogno di te / Devo liberarmi / Dio lo sa, Dio sa che voglio liberarmi»), oppure di quella percezione di autonomia che si inerpica anche dentro un rapporto amoroso come suggerito dai Tiromancino di Liberi («Siamo liberi da qui / di lasciarci andare e poi / riprenderci / perché l’amore non finirà/ se è anche libertà»). Dagli Iron Maiden a Fiorella Mannoia, da Roberto Vecchioni a Sting: tutti ne parlano, anche perché non c’è una sola libertà. Ma quindi: di che libertà parliamo? Come la cerchiamo? E come la realizziamo? E, da ultimo, chi ci può aiutare a raggiungerla?
Libertà e Storia
Occorre gettare uno sguardo sulla storia della musica per capirci qualcosa. La libertà è prima di tutto un valore espresso… da chi ne sentiva la mancanza. Da questo punto di vista la canzone simbolo del “bisogno di libertà” è Oh Freedom, spiritual che affonda le radici nel periodo immediatamente successivo alla guerra di Secessione americana. Sono tanti gli spiritual ai quali la popolazione afro-americana affidava il proprio desiderio di spezzare le catene, di pace, di serenità, sempre sperando in una giustizia divina, ma Oh Freedom è quello che è giunto a noi in modo più ricco, diffuso ed emozionante (anche grazie alle interpretazioni di Joan Baez e di Odetta): «Oh libertà / Oh libertà sopra di me! / E piuttosto che diventare schiavo / Sarò seppellito nella mia tomba / E andrò a casa dal mio Signore / E sarò libero».
L’anelito di libertà, sociale e personale, è per lo più legato - nelle canzoni - a fatti e momenti storici, a cui le canzoni stesse hanno fatto da amplificatore. Per questo alcuni eventi (la guerra del Vietnam, gli assassini dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, il periodo della contestazione giovanile, la caduta del muro di Berlino, la fine del regime sovietico) sono stati contesti storico-culturali da cui sono emerse tante melodie degli ultimi settant’anni. Un esempio? Eccolo: il rock sul crollo del comunismo nell’Europa dell’Est ha prodotto parecchio, in primis una ballata struggente e bellissima dei tedeschi Scorpions, The Winds of Changes: «Il mondo si sta riunendo / Hai mai pensato / Che potremmo essere così vicini, / Come fratelli / Il futuro è nell’aria / Lo sento dappertutto / Soffia con il vento del cambiamento / Portami nella magia di questo attimo / In una notte fantastica / Dove i bambini di domani sognano / Nel vento del cambiamento».
La fine di una dittatura. Era una speranza, a cui tutti hanno creduto e a cui in tanti (tra cui Papa Giovanni Paolo II) hanno contribuito. Il crollo dei muri, una nuova forma di amicizia, una nuova collaborazione personale e internazionale. Ma dove è finita quest’attesa? Cinque anni dopo la caduta del muro di Berlino (avvenuta nel 1989), i Pink Floyd (tra le band più importanti dell’intera storia del rock) se ne escono con un disco, The Division Bell, in cui risalta una canzone struggente, A Great Day for Freedom, che consegna all’ascoltatore la perplessità di fronte al “dopo caduta del Muro”: «Il giorno in cui cadde il muro / Hanno gettato i lucchetti a terra / E con i calici in alto abbiamo lanciato un grido / Perché la libertà era arrivata / Il giorno in cui cadde il muro / La nave dei folli si era finalmente arenata / Le promesse illuminavano la notte come colombe di carta in volo (…) / Adesso la vita si svaluta giorno dopo giorno / Mentre amici e vicini si allontanano / E c’è un cambiamento che, anche con rammarico / L’operazione non può essere annullata / Ora le frontiere si spostano come le sabbie del deserto / Mentre le nazioni si lavano le mani insanguinate».
La delusione dopo la speranza. Pessimismo pinkfloyidiano? Realismo? Lo stesso autore del brano David Gilmour ebbe a commentare quel titolo così: «Quando è caduto il Muro è stato un meraviglioso momento di ottimismo: la liberazione dell’Europa orientale dal lato non democratico del sistema socialista. Ma quello che hanno ora non sembra essere molto meglio. Di nuovo, sono piuttosto pessimista al riguardo della nostra libertà complessiva. In un certo senso desidero e vivo nella speranza, ma tendo a pensare che la storia si muova a un ritmo molto più lento di quanto pensiamo». E dunque? La libertà nei fatti della storia è destinata a suscitare speranza e a terminare in una delusione? E le canzoni esprimono tutto questo andirivieni delle cose dell’uomo? Ebbene si: la musica si fa portavoce. Sia dei fatti, che dei sentimenti, che dei desideri. Ed anche delle contraddizioni che il tema della libertà porta a galla.
Libertà e Desiderio
Se c’è una canzone (tra le tante) che ha espresso questa fatica umana nei confronti del dilemma della libertà, questa è Liberi Liberi, scritta da Vasco Rossi nel 1989 (cioè proprio l’anno della caduta del Muro): «Liberi, liberi siamo noi / Però liberi da che cosa / Chissà cos’è? / Chissà cos’è? / Finché eravamo giovani / Era tutta un’altra cosa / Chissà perché? / Chissà perché? / Forse eravamo stupidi / Però adesso siamo cosa / Che cosa che / Che cosa se / Quella voglia, la voglia di vivere / Quella voglia che c’era allora / Chissà dov’è?»
Il Vasco incentra il tema della libertà non tanto sulla storia e sui fatti esterni, quanto sul tema del desiderio, sul tema del profondo sé stesso, sull’argomento principe: per cosa siamo fatti? Cosa ci mette davvero in catene? Un potere esterno oppure un “blocco” esistenziale? Cosa c’è dentro di noi che, come dice Lucio Dalla in Cosa sarà, “dobbiamo cercare”? Forse qui si giunge al tema ultimo, quello che Bob Dylan aveva cantato in I Shall be Released (ed era il 1967): «Vedo la mia luce che splende / Da ovest ad est / Da un momento all’altro / Da un momento all’altro ora / Sarò liberato».
Al di là delle costrizioni esterne e delle diatribe interne, c’è qualcosa dentro di me, sembra suggerire il premio Nobel Bob Dylan, che in modo ineliminabile anela alla libertà. E questo anelito è certezza: è il cuore che inevitabilmente non si accontenta di poco, non gode nel percepirsi limitato. È qui che tanta libertà interpretata da molti autori delle ultime generazioni (da Fedez a Salmo, da Giorgia a Cremonini) appare più come l’istinto di un momento, il battito sanguigno, il “fare ciò che viene in mente”. A questa libertà – istinto, reattività, naturalità – risponde Giorgio Gaber: libertà è partecipazione. Nel 1972 il cantautore milanese scrive La libertà, una delle sue canzoni più celebri nella quale mette in relazione quell’ineliminabile tensione con le sue conseguenze “sociali”: «Come l’uomo più evoluto / Che si innalza con la propria intelligenza / E che sfida la natura / Con la forza incontrastata della scienza / Con addosso l’entusiasmo / Di spaziare senza limiti nel cosmo / E convinto che la forza del pensiero / Sia la sola libertà / La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche un gesto o un’invenzione / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione».
L’uomo libero è colui che è in grado di costruire, di collaborare, di unirsi al prossimo, di entrare in relazione. E visto che fare tutto questo non è così facile, e soprattutto non ci si riesce da soli, ecco che si richiude il cerchio tornando a Oh Freedom. Gli schiavi neri elevavano al cielo la richiesta di libertà e forza. Allo stesso modo, nel 1973 George Harrison (uno dei Beatles) affida tutto ad una presenza divina in Give me Love, perché solo così si può “restare liberi dalla nascita”: «Dammi amore, dammi amore / Dammi pace sulla terra / Dammi luce, dammi vita / Tienimi libero dalla nascita / Dammi speranza, aiutami ad affrontare questo pesante fardello / Cercando di toccarti e raggiungerti con cuore e anima».
Dammi luce, dammi vita: solo così, in una domanda, la libertà può essere raggiungibile e costruibile. Forse all’inizio di tutto c’è una preghiera. Quella “mendicanza” di cui parlava così spesso Papa Francesco. Chissà se riusciamo a ricordarcene.
Dell’Autore segnaliamo:
La ballata di Chieffo. Storia di un cantautore
Volontè & Co, 2025, pp. 244