Una grande Europa per i più piccoli

Una visione comunitaria matura è segno di speranza in un mondo di conflitti

 di Giuseppe Riggio
Gesuita, Direttore di Aggiornamenti Sociali

 Negli ultimi anni il progetto europeo procede in modo stentato.

In numerosi Paesi, è rimesso in discussione dalle affermazioni elettorali dei partiti sovranisti, critici nei confronti delle istituzioni europee e allergici all’ampliamento delle loro competenze. In questo clima politico meno favorevole, l’Unione Europea (UE) ha dovuto far fronte a una serie di shock esterni che hanno costituito seri banchi di prova: dalla pandemia nel 2020, all’invasione russa in Ucraina nel 2022 alle recenti dure prese di posizione del presidente Donald Trump nei confronti degli alleati europei. Si tratta di eventi molto diversi tra loro, a cui le istituzioni europee non sempre hanno saputo rispondere in modo adeguato, realizzando il mandato sancito nei trattati istitutivi: «L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (art. 3, 1, Trattato sull’UE). Per leggere questa fase politica viene in soccorso la storia del progetto di integrazione europea.

 Una breve storia

Gli oltre settant’anni di vita delle istituzioni europee mostrano con chiarezza che non vi è mai stata un’evoluzione lineare del progetto europeo, ma il susseguirsi di periodi con notevoli passi in avanti e altri in cui ci sono state frenate o si è lavorato per consolidare i risultati raggiunti.
A grandi linee possiamo individuare tre fasi principali di sviluppo. La prima si situa nel secondo dopoguerra. Tra il 1951 e il 1957 prende forma il progetto europeo che ora conosciamo con la nascita della CECA (Comunità economica del carbone e dell’acciaio), della CEE (Comunità economica europea) e dell’Euratom. I sei Stati fondatori scelgono la cosiddetta logica funzionalista, secondo cui la realizzazione dell’unione politica europea avviene per tappe progressive, attraverso forme di collaborazione in ambiti definiti (in particolare economici), che richiedono cessioni di parti di sovranità da parte degli Stati. La seconda fase si colloca a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, con la prima revisione dei trattati istitutivi e il varo di progetti altamente simbolici, come l’adozione della moneta unica e la libera circolazione delle persone stabilita con l’accordo di Schengen. La terza fase, intorno al Duemila, vede l’ingresso di diversi Paesi dell’Europa centrorientale, che sancisce il superamento definitivo della Guerra fredda.
In quest’ultima fase, il progetto dell’UE sembra proiettato verso un maggiore consolidamento politico, ma il travagliato percorso di adozione della Costituzione europea, definitivamente interrotto dopo la bocciatura nei referendum svolti in Francia e Paesi Bassi, segna una brusca e rovinosa battuta d’arresto, al punto che la progettualità politica non è stata più ripresa con la stessa ampiezza di orizzonti. Negli ultimi venti anni, l’UE ha proseguito a “gestire” l’ordinario, anche facendosi carico di nuove questioni e affrontando non pochi momenti critici, ma scivolando sempre di più nel suo funzionamento dalla logica comunitaria, che aveva ispirato i trattati degli anni ’50, a quella intergovernativa, in cui gli interessi nazionali hanno maggior peso.

 Quali scenari?

Al politico francese Jean Monnet, tra i protagonisti del sogno europeo, è attribuita una frase spesso citata che offre una chiave di lettura pertinente per questo tempo: «L’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi». Le crisi con cui l’UE deve oggi misurarsi non sono poche, basti considerare gli interrogativi sollevati dai mutati assetti internazionali, dalle conseguenze dei cambiamenti climatici o dai progressi sul piano tecnologico. Tuttavia, la questione principale con cui si confronta oggi l’UE – e da cui dipende il suo futuro – non riguarda eventi esterni, ma la stessa Unione. È sempre più diffusa e condivisa a livello politico la consapevolezza che è necessario e urgente un cambio di marcia nel processo europeo, ma si è ancora lontani dal trovare una convergenza sulla direzione da intraprendere.
Partiamo dall’ipotesi più ambiziosa: il sogno di giungere a una federazione europea è sempre presente come orizzonte ideale, ma una sua concretizzazione è molto lontana. Al contempo, le conseguenze della Brexit hanno smorzato le spinte a seguire l’esempio del Regno Unito: i partiti euroscettici e le forze sovraniste non prospettano più un’uscita dall’UE, ma sostengono che c’è bisogno di “meno Europa”. Lo slogan cela la volontà di ridurre l’UE essenzialmente alla dimensione economica, restituendo agli Stati nazionali ampi margini di sovranità negli altri ambiti. La terza prospettiva prende le mosse da una constatazione: le attuali posizioni politiche non permettono una modifica organica e complessiva dell’assetto istituzionale europeo. La proposta è allora di permettere agli Stati che lo desiderano di avanzare su alcuni temi, ad esempio la difesa, attraverso forme di collaborazione rafforzata (la cosiddetta Europa a più velocità). L’ultimo scenario è che si mantenga lo status quo per veti reciproci, calcoli politici nazionali, mancanza di visione e coraggio da parte dei leader. Sarebbe la prospettiva peggiore perché l’UE resterebbe di fatto sospesa in un limbo, in cui non si affrontano le questioni urgenti per l’assenza di una visione complessiva.

 La via della collaborazione

A dover scegliere tra queste diverse possibilità è chiamata la classe politica europea, a cui noi cittadini attraverso il voto nelle elezioni europee e nazionali abbiamo affidato questo compito. Ma è evidente che la portata delle decisioni da prendere richiede che vi sia un ampio e informato dibattito. Va notato che dopo un periodo in cui si sono tenute diverse elezioni si apre adesso una breve fase temporale di relativa stabilità. Da qui alla fine del 2026, infatti, non vi saranno elezioni politiche nei maggiori Paesi europei, dato che l’appuntamento con il voto è nel 2027 per l’Italia, Francia, la Polonia e la Spagna, mentre si sono appena tenute in Germania. Questa finestra di un anno e mezzo, per quanto breve, può essere un’opportunità per definire l’itinerario futuro dell’UE, o almeno porre le basi per farlo. In questo scenario, peseranno di sicuro i fattori interni, in particolare la presa che avranno i partiti sovranisti sull’opinione pubblica, e gli eventi internazionali, al momento di difficile lettura per l’imprevedibilità in particolare degli Stati Uniti di Trump.
L’auspicio è che si sappia anche tenere conto della spinta all’origine dell’integrazione europea. Quell’intuizione innovativa si è rivelata fruttuosa e riteniamo che abbia ancora qualcosa da dire oggi giorno, come mostra la storia recente. Pensiamo alla questione delle migrazioni, che resta aperta e problematica, segno che le politiche varate per ostacolare l’ingresso dei migranti nella “Fortezza Europa”, lontane da un’effettiva collaborazione, sono alla fin fine inefficaci. La logica della solidarietà ha trovato spazio, invece, nella crisi pandemica, quando si è passati dall’iniziale azione scoordinata alla scelta di concordare a livello europeo le decisioni, dando un’attenzione prioritaria alla protezione dei cittadini più fragili. Non tutto è andato bene in quei mesi complicati, tuttavia va riconosciuta l’importanza di quel cambio di passo e dei risultati che così è stato possibile raggiungere.
La carica profetica di quella scelta si può riassumere in una convinzione: la collaborazione realizzata attraverso la cessione di sovranità di fatto non implica una perdita di libertà, ma l’accesso a possibilità altrimenti non disponibili, soprattutto per i più “piccoli”, tanto le fasce sociali più deboli all’interno di un Paese quanto gli Stati con un modesto peso nello scacchiere internazionale, i quali finiscono col pagare il prezzo più alto. Anche oggi la solidarietà tra gli Stati e tra i popoli è una via possibile da percorrere, che sia il vecchio continente, per secoli dilaniato da lotte e rivalità, a testimoniarlo sarebbe un segno di speranza.