Figli di un Arameo errante
L’Antico Testamento è attraversato dalla consapevolezza di essere pellegrini
di Giuseppe De Carlo
biblista
La Bibbia utilizza la metafora del cammino per descrivere le molteplici relazioni che l’essere umano instaura nel corso della propria esistenza.
Il rapporto fondamentale tra la creatura e il Creatore è rappresentato da un itinerario percorso insieme o in contrapposizione. L’espressione “camminò con Dio” riassume il giudizio sull’intera esistenza di un uomo che ha vissuto in armonia con Dio. Al contrario, “voltare le spalle” al Signore indica il distacco da Dio, l’avventurarsi nella direzione opposta che porta sempre più lontano da lui. Il ristabilimento della relazione può avvenire solo con un’inversione di marcia. Infatti, il termine ebraico shuv, utilizzato per la conversione religiosa e il ritorno al Signore, significa una sterzata decisiva per ritornare al punto di partenza: ci si è allontanati dal Signore, a lui occorre ritornare.
Il cammino dei patriarchi
Anche l’origine del popolo di Israele è segnata dal cammino, dal viaggio. Ne è ben consapevole ogni pio israelita che, alla presentazione delle primizie, ripete il suo “credo storico”: «Mio padre era un Arameo errante…» (Dt 26,5). Infatti, il capostipite Abramo è chiamato da Dio mentre si trova già in una dinamica di emigrazione iniziata dal padre Terach, che si è spostato da Ur dei Caldei a Carran. Il Signore invita Abramo a non fermarsi, a lasciare la propria terra per dirigersi verso un luogo che in seguito gli avrebbe mostrato. Il racconto del pellegrinaggio di Abramo è tra i più suggestivi ed emblematici della Bibbia. Si tratta di un autentico viaggio di fede e di speranza, compiuto nella totale disponibilità verso Dio e la sua promessa. Il percorso di Abramo, che è anche un itinerario interiore di crescita e maturazione della fede, segna l’inizio della storia della salvezza e del cammino di tutto il popolo di Israele. Anche con Isacco il viaggio rappresenterà il rinnovarsi della promessa divina, e così avverrà con Giacobbe, la cui lotta con Dio diventerà la metafora della lotta spirituale che ogni credente deve affrontare per incontrare il Signore e trasformarsi. Il pellegrinaggio dei patriarchi è da leggere come un cammino di fiducia, obbedienza e speranza e prepara il popolo di Israele a comprendere che la vera patria non è una terra fisica, ma una promessa che si realizza solo nella fedeltà a Dio, in un viaggio geografico che è ricerca del Signore e risposta al suo appello a camminare con Lui.
Quindi, già con i patriarchi – oltre i comuni spostamenti per le esigenze della sussistenza e la ricerca dei pascoli per i greggi – si sviluppa la pratica dei pellegrinaggi verso santuari e luoghi sacri, gettando così le fondamenta di successive tradizioni religiose e liturgiche. Il libro della Genesi ne documenta uno solo, quello di Giacobbe a Betel (Gen 35,1-8); esistono tuttavia numerosi riferimenti ai patriarchi in cammino verso altri luoghi sacri, come Sichem, Mamre, Bersabea. Sebbene la meta non sia ancora Gerusalemme, come più tardi prescriverà la Torah, la vita dei patriarchi è stata segnata da esperienze di cammini e spostamenti dallo straordinario valore simbolico e teologico.
Un viaggio che trasforma
Nei racconti dei libri storici dell’Antico Testamento è poi particolarmente significativa l’esperienza del profeta Elia che, ricercato a morte dalla regina Gezabele, si mette in fuga verso l’Oreb, il monte di Dio. Si tratta di un viaggio drammatico, nel quale il profeta stesso si sorprenderà ad invocare la morte: «S’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”. Si coricò e si addormentò sotto la ginestra» (1Re 19,3-5). Il Signore, tuttavia, trasformerà quel cammino dettato dalla paura in un vero pellegrinaggio di speranza e di rinascita: «Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: “Àlzati, mangia!”. Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua» (1Re 19, 5-6). Così rifocillato, Elia si rimette in cammino. Giunto all’Oreb, si rifugia in una caverna per passare la notte: la notte è il tempo del buio, della ricerca, del deserto interiore, dell’attesa della luce dell’alba. È così predisposto ad intercettare nella “voce sottile del silenzio” la presenza amorosa di Dio che, con la sua parola potente, lo ristabilisce nella vocazione e nell’investitura profetica.
La pratica del pellegrinaggio sarà poi sancita dalla Torah, che prescriverà agli israeliti di recarsi a Gerusalemme tre volte all’anno per manifestare la propria venerazione al Signore. Esodo 23,14-17 stabilisce l’obbligo di recarsi nella città santa in occasione di tre festività, Pesach (Pasqua), Shavuot (Pentecoste) e Sukkot (Festa delle Capanne): «Tre volte all’anno ogni tuo maschio comparirà alla presenza del Signore Dio». Nel viaggio verso Gerusalemme, come pure nel periodo di permanenza nella città santa, gli israeliti si impegnano a purificarsi fisicamente e spiritualmente per rendersi degni di comparire davanti al Signore, e allo stesso tempo rinnovano la promessa di fedeltà all’alleanza con Dio. Il pellegrinaggio diviene per questo un atto di fede e di adorazione, ma anche l’occasione per vivere e rafforzare la dimensione comunitaria e identitaria, il proprio senso di appartenenza al “popolo di Dio”. Un’esperienza interiore che coinvolge profondamente il singolo e la comunità.
I canti delle salite
La spiritualità dei pellegrini è evidenziata anche nel libro della preghiera di Israele. Quindici salmi del Salterio, dal 120 al 134, portano la soprascritta “canto delle salite”, poiché Gerusalemme si trova in alto e da qualsiasi direzione della Terra Santa si provenga bisogna salire. Questi salmi esprimono il forte desiderio dei pellegrini di essere vicini a Dio e narrano poeticamente le vicende, anche interiori, di chi si reca al tempio, luogo della presenza del Signore. Nell’esperienza del pellegrinaggio viene riletta in filigrana tutta l’esistenza del pellegrino con il suo carico di speranze e attese. Nell’accingersi a mettersi in cammino esprime tutta la propria gioia che lo proietta già nella città santa annullando nell’emozione la fatica del lungo tratto di strada che dovrà percorrere: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore!”. / Già sono fermi i nostri piedi / alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 122,1-2). Anche se il percorso riserberà insidie e pericoli, si è sostenuti dalla fiducia nella sicura protezione divina: «Il Signore è il tuo custode, / il Signore è la tua ombra / e sta alla tua destra. / Di giorno non ti colpirà il sole, / né la luna di notte» (Sal 121,5-6). La speranza del pellegrino poggia sulla gratitudine della benedizione di Dio che ricade su tutta la sua vita: «Ecco com’è benedetto / l’uomo che teme il Signore. / Ti benedica il Signore da Sion. / Possa tu vedere il bene di Gerusalemme / tutti i giorni della tua vita!» (Sal 121,5-6).
Da un altro salmo si evince che non basta il pellegrinaggio in sé a facilitare una relazione giusta con Dio e con i propri simili, ma è necessaria la coerenza con ciò che si vive nella quotidianità: «Chi potrà salire il monte del Signore? / Chi potrà stare nel suo luogo santo? / Chi ha mani innocenti e cuore puro, / chi non si rivolge agli idoli, / chi non giura con inganno» (Sal 24,3-4).
Il pellegrinaggio è presentato dunque nell’Antico Testamento come un’esperienza fisica, simbolica e spirituale, un cammino di fede e di speranza che conduce verso un luogo sacro e apre al dialogo e alla comunione con Dio. Questo concetto è particolarmente attuale nel mondo di oggi, caratterizzato da una mobilità costantemente in crescita, come evidenziato dal fenomeno delle migrazioni. Riflettere sulle esperienze raccontate nella Sacra Scrittura aiuta quindi a comprendere il significato di questo viaggio nel tempo della globalizzazione, in cui la Chiesa è chiamata a una nuova evangelizzazione e alla promozione della cultura dell’incontro e dell’accoglienza, utilizzando nuovi strumenti e linguaggi.