Surfando sullo Spirito
Lo sguardo dei giovani sulla vita e le sfide educative
di Gilberto Borghi
della Redazione di MC
Primavera 1989. Insegnavo da qualche mese per la prima volta in una scuola superiore.
E per la prima volta, davanti a quegli adolescenti desiderosi di guardare avanti, mi venne da porre una domanda che mi sembrava quasi banale: come sarete fra 5 anni? Le risposte di allora le ho perse, ma la sensazione che le accompagnava è ancora viva: ci credevano. Magari davano risposte utopiche o idealiste, ma io percepivo chiaramente che ci credevano. C’erano dei sogni, che diventavano desideri e mettevano in moto la voglia di futuro. Poi un certo numero di quelli ne sono usciti con le ossa rotte. Molti tentativi sono falliti e hanno dovuto fare i conti con una vita che non era ciò che desideravano. Alcuni invece ci sono riusciti, chi al 30, pochi al 60, rari al 100 %.
Lo scorso anno, butto lì la stessa domanda: come sarai fra 5 anni? Inizia Elena: «Prof. cinque anni? Ma lei è fuori! Cinque anni sono una vita, adesso finisco la scuola e poi ci penso». E Lorenzo aggiunge: «Non lo so prof. mi sembra impossibile pensare così avanti… magari “slavoricchio” un po’, ma non è cambiato niente da adesso». «Cioè » gli dico. «Eh, lavoro, vivo coi miei e mi diverto, come adesso, a parte la scuola». E Annachiara, sulla stessa linea: «Non lo so prof. a me piacerebbe l’idea di fare l‘università di grafica a Urbino, ma è dura e non so davvero se ci riesco. Boh, ci penserò quando ho finito». Infine Lubor: «Prof. già è molto se arrivo a diplomarmi. Ma non mi sembra che nemmeno chi fa l’università poi abbia chissà quali possibilità in più».
Cavalcare l’onda
Il denominatore comune è evidente: la fatica palpabile a guardare al futuro e una resistenza a crescere, talmente spessa che si può tagliare a fette. I sogni, forse, ci sono. Ma non diventano più desideri. Restano sogni. Anche perché, già precocemente, hanno visto adulti con le ossa rotte “tirare a campare” e riprendere atteggiamenti adolescenziali che loro ben conoscono.
La generazione degli anni ’80 aveva la sensazione chiara di provare a “prendere il largo”, cioè provavano a lasciare il “porto” e ad avventurarsi in mare aperto in direzione di una meta, più o meno reale, più o meno chiara. Questo portava con sé il senso della direzione, di una traccia almeno, di una progettualità esistenziale, di un cammino possibile e dei rischi di naufragio ad esso connessi. Perciò induceva anche ad avere una certa “competenza”, un bagaglio di esperienza da cui imparare, per proteggersi dai rischi e veleggiare più direttamente sull’obiettivo.
Oggi, invece, questa generazione, piuttosto che “prendere il largo”, preferisce fare il “surf” sulla vita. A pochi metri da riva, armati di una semplice tavola, cercano di stare in piedi il più possibile, ben sapendo che prima o poi andranno a fondo, nella speranza di risollevarsi senza essersi fatti troppo male. Ma soprattutto ben sapendo che l’obiettivo non è raggiungere un obiettivo, ma “cavalcare l’onda”. Questo porta con sé la sensazione di non avere direzione apparente, di non affrontare rischi eccessivi, ma nemmeno che qualche sogno possa essere preso sul serio e diventare desiderio. Con la conseguenza di ritenere inutile un bagaglio di “strumenti” per il domani. È già così impegnativo conoscere e utilizzare quelli per l’oggi!
L’effetto evidente è quello di tirarsi via da questo “giro” sospendendo le decisioni che contano. Come se fosse necessario difendersi dalla società adulta, percepita come gravida di rischi non affrontabili da loro, rimandando il loro ingresso in essa il più in là possibile. Allora la sfida educativa che queste generazioni pongono è pesante. Si può rintracciare un senso (e magari anche una fede) da dentro questo stile da “surf”, senza per forza chiedergli immediatamente di ritornare a “prendere il largo”?
Tempo reale, spazio virtuale
È una domanda essenziale. Perché normalmente noi perseguiamo uno stile di educazione che ancora immagina un atteggiamento dei giovani (ma non solo loro!) che dovrebbero “prendere il largo”. Parliamo di cammino, di sequela, di vocazione come progetto, di felicità come obiettivo da raggiungere, di comunità da edificare. Si è passati da una fissità ordinata e cadenzata del tempo tipico del medio evo, in cui l’idea che la vita fosse un cammino era assolutamente scontata, alla maggiore mobilità dialettica dell’epoca moderna, dove la vita era una navigazione, più che un cammino, a volte verso l’ignoto, ma comunque fatta per cercare di superare i limiti già conosciuti; fino ad oggi in cui la frammentazione personale e la velocità di cambiamento sociale rende impossibile continuare a pensare la vita in termini di “meta da raggiungere”.Ecco perché i giovani sanno “a pelle” che la vita non si mostra a loro più come una direzione da prendere, qualsiasi sia il mezzo di trasporto utilizzato e il terreno attraverso cui andare. Ma assomiglia di più ad uno spazio-tempo vuoto, entro il quale però potrebbe irrompere l’imprevisto e l’insperato, ciò che offre un senso atteso, ma non producibile dal basso. Già, perché ad appena diciotto anni hanno cominciato a pensare che il tempo non è più virtuale, ma reale, cioè vale solo il presente, e così la progettualità perde spessore concreto; e anche lo spazio non è più reale, ma virtuale, cioè esisti solo se sei connesso alla rete, e così la radice geografica e culturale da cui partiamo perde forza ideale.
Kairos è possibile
A prima vista questa descrizione sembra tagliare ogni possibilità di educazione, se pensata secondo le categorie tradizionali. Se invece la si guarda con categorie più “evangeliche”, forse le cose non sono così terribili. Perché, a dir la verità, l’esperienza di fede dei discepoli mostra di essere qualcosa che accade loro da “fuori” dello schema con cui avevano organizzato le scelte di vita, prima di incontrare Cristo. E la fede nasce in loro proprio nel momento in cui lasciano che, in quello spazio-tempo ordinato e strutturato dallo schema, irrompa la potenza di Cristo, che li conduce ad una esperienza dell’inatteso e dell’impensabile, in cui la guida è quello Spirito di cui loro non sanno “né di dove venga, né dove vada”. Allora la domanda diventa: si può trasformare la condizione di apparente apatia e rinuncia della generazione giovanile di oggi in un tempo di grazia, un “kairos”, in cui resta aperto l’orizzonte della loro vita, ma il suo Mistero li afferra comunque fino a renderli parte di qualcosa che loro stessi vivranno senza poterlo controllare? Si può fare il “surf”, in ascolto del “Vento” che soffia dove vuole?
Credo di sì. Se in questo stato di cose qualcuno facesse brillare davanti a loro l’alterità della vita, cioè che esistiamo gratuitamente, che l’amore non si mercanteggia e per questo diventa attraente per chi vive solo nella logica del mercato, forse la vita si riempirebbe di possibilità di mistero. Ma perché questo avvenga serve che si incontrino persone o comunità che vivono in questo modo, che sentono la vita come una consegna di sé alla Trascendenza, per amore, fuori dalle logiche del sistema, fuori dal mercato. Purtroppo, l’impressione è che oggi, anche nella Chiesa, gli adulti siano più presi dal bisogno di rassicurarsi che la propria vita sia “salva” e raramente invece si trovano persone che vivono la vita come una vera consegna per amore.
Oggi l’esperienza che può riaprire una vera educazione non è più quella di stare “nel giro”, nel cammino, nel progetto, nella vocazione. E non perché, di per sé, queste parole siano diventate false. La loro verità resta. Ma non possono più essere il veicolo principale attraverso cui educare. Perché cozzano drammaticamente contro la percezione dello spazio-tempo oggi maggiormente diffusa.