Specchio io sarò

Ciò che Chiara lascia in eredità è la gratitudine per ciò che ha avuto da Dio 

di Maria Giovanna Cereti
clarissa

 È difficile capire se la parola “eredità”, al di là del suo possibile significato materiale, abbia ancora oggi un valore esistenziale.

Nel vorticoso mutamento che negli ultimi decenni ha cambiato il volto del mondo con rapidità inimmaginabile, si è progressivamente indebolita la percezione di poter ricevere qualcosa da chi ci ha preceduto: una sapienza sulla realtà e sulla vita, una indicazione di senso … Ogni nuova generazione, anzi, ogni individuo sembra dover cominciare da zero e trovare da sé tutto questo. E allora un testamento, fosse pure quello di una santa esemplare, ha davvero qualcosa da dirci?
Non era così al tempo di san Francesco. Al contrario, in lui è stata vivissima la coscienza della responsabilità di testimoniare e trasmettere il dono ricevuto. Così, alla richiesta dei frati che lo assistevano di lasciare loro «qualcosa che li aiutasse a fare memoria», Francesco gravemente malato rispose prima con un brevissimo testo che condensava quasi in una sola frase la sua esortazione ai fratelli: «sempre si amino gli uni gli altri, sempre amino ed osservino nostra signora la santa povertà...». Ma nei mesi successivi elaborò un testo molto più ricco, il Testamento appunto, in cui consegnava i ricordi fondamentali della sua vita come aiuto per non lasciarli soli. Quelle pagine si rivelano ancora oggi essenziali per incontrare la sua esperienza umana e cristiana.
Sulle orme di Francesco, anche Chiara lascia un Testamento, affidato forse alla dettatura a frate Leone nell’ultimo periodo della sua vita. Poiché l’approvazione della Regola tarda ad arrivare, Chiara sente l’urgenza di offrire alle sorelle uno scritto che esprima la memoria delle tappe fondamentali della sua esperienza spirituale e dell’avventura di sequela fiorita a San Damiano. Non per scrivere un’autobiografia, ma per indicarne la chiave interpretativa, che può risultare interessante anche per noi oggi. Cerchiamo dunque di scoprirla.

 Il nostro Donatore

Fin dalle prime righe si parla di “doni, benefici, immensi benefici” ricevuti da Dio, che significativamente è chiamato il nostro Donatore e il Padre delle misericordie. Chiara riconosce se stessa come una che ha ricevuto tutto, che è stata ricolmata di doni. Dunque Dio è per lei il Donatore, la sorgente di questa assoluta gratuità da cui ha sentito investita la sua vita e quella delle sorelle.
Di Dio è l’iniziativa della vita e della vocazione, di cui Chiara parla come “grande beneficio”. Ricevuto però non per rivelazione diretta, ma nella forma di un incontro che ha segnato per sempre il suo cammino, l’incontro con Francesco. Per ben 19 volte nel Testamento Chiara ricorda il beatissimo padre nostro Francesco: dal suo esempio e insegnamento ella ha accolto l’ispirazione decisiva e l’invito alla conversione; alla sua diligente cura e speciale sollecitudine si è sempre affidata insieme alle sorelle. Chiara dunque non si percepisce come una che si è fatta da sé, come una che ha cercato di “realizzare se stessa” (parole abusate oggi, ma certamente del tutto estranee al suo orizzonte di significati): per lei la vocazione, come la vita, costituisce il talento donato e scoperto nella concreta mediazione di un incontro. Chiara sente tanto profondamente la responsabilità del dono, che sembra non avere altro scopo che restituire. Si può proprio dire che tutta la sua esistenza scorre e si alimenta fra questi due poli, “ricevere/accogliere”  e “restituire”.

 Con gratitudine

In Chiara la restituzione ha il volto della gratitudine: è questo il filo d’oro che troviamo intessuto fra le righe del Testamento: «siamo molto tenute a rendere a Lui glorioso vive azioni di grazie» (FF 2823); «con l’aiuto divino, possiamo riconsegnare a lui, moltiplicati, i talenti[i] ricevuti!» (FF 2828);«siamo estremamente tenute a benedire e a lodare il Signore, ed a crescere ogni giorno più nel bene» (FF 2830).
Si può affermare che è proprio la gratitudine il cuore dell’esperienza che Chiara ha fatto di sé, della realtà intera, dell’avventura di sequela di Cristo condivisa con le sorelle. La troviamo ripetuta e sottolineata in tutti i suoi scritti, vero e proprio cantus firmus che raggiunge il culmine nelle parole che Chiara, ormai morente, rivolge alla sua anima: «Va’ sicura, in pace, anima mia benedetta, perché hai buona scorta nel tuo viaggio! Infatti Colui che ti ha creata, ti ha resa santa e, sempre guardandoti come una madre il suo figlio piccolino, ti ha amata con tenero amore» (FF 2986).
Come Francesco, Chiara ha fatto propria la forma del Cristo povero, il Signore della maestà reso nostro fratello dalla Vergine Maria: ha fissato lo sguardo su di Lui, che è l’Eternamente Amato, pura riconoscenza, totale ed eterna restituzione d’amore al Padre; come Lui è diventata rendimento di grazie. Tutta la sua vita è eucaristia.

 Essere specchio

La gratitudine riverbera sugli altri, perché rende visibile una precisa immagine di Dio: ecco appunto l’immagine dello specchio, che Chiara propone a più riprese anche nel Testamento: lo specchio riflette l’immagine per rinviarla; rendere grazie, per Chiara, è rispecchiare la gratuità benevolente del Padre facendosi a propria volta dono: “proprio il Signore ha collocato noi come modello, ad esempio e specchio non solo per gli altri uomini, ma anche per le nostre sorelle, quelle che il Signore stesso ha chiamato a seguire la nostra vocazione, affinché esse pure risplendano come specchio ed esempio per tutti coloro che vivono nel mondo” (FF 2829). «Egli ci ha scelte per un compito … che in noi si possano specchiare tutte coloro che chiama ad essere esempio e specchio degli altri» (FF 2830).
Non si tratta, come forse potrebbe sembrare, di presumere di sé e della propria perfezione: Chiara sa molto bene di essere piccola, fragile, e che il suo è un ben piccolo gregge. Ma sente con intensità la responsabilità di testimoniare il volto di Dio di cui ha fatto esperienza e a cui intende rimanere fedele: per questo raccomanda alle sorelle presenti e future di non allontanarsi dalla povertà, che hanno vissuto e vivranno come assoluta dipendenza dalla benignità di Dio e anche dalla bontà degli uomini.
Un altro suggerimento prezioso mi sembra di poter cogliere per ciascuno di noi e per la nostra vita. Chiara ripercorre le tappe della storia sua e della fraternità di San Damiano, con le sue intuizioni decisive e le scelte fondamentali, come per raccomandarle alla memoria presente e futura. Quasi dicesse alle sorelle «guardatevi bene dal dimenticare …». Ricordare, fare memoria, è la premessa per “considerare e custodire”. Quanto sarebbe vitale per noi, che siamo spesso uomini e donne soggetti alla tirannia dell’istante, così frammentati e dispersi da faticare a riconoscere un filo conduttore del nostro cammino, fare memoria dell’opera del Signore nella nostra vita. Per riconoscere la sua benedizione e benedirlo.

 So chi sono

Pur definendosi piccola e indegna, Chiara non teme di affermare più volte, con forza, “io, Chiara”: non è presuntuosa autosufficienza o fare di sé il centro del mondo, ma solo esprimere una precisa coscienza di sé e dell’identità ricevuta in dono. Una identità che è sempre relazionale: lo dicono i modi in cui Chiara parla di sè: io serva di Cristo e delle sorelle povere, io pianticella del padre san Francesco, io ancella delle sorelle, io assieme alle mie sorelle … Chiara non può pensarsi sola, si pensa sempre dentro una reciprocità fraterna che la definisce. Dal suo “io” prende forma un “noi” che ha radici profonde e solide nella misericordiosa presenza del Padre. Esorta infatti le sorelle: «E amandovi a vicenda nell’amore di Cristo, quell’amore che avete nel cuore dimostratelo al di fuori con le opere, affinché le sorelle, provocate da questo esempio, crescano sempre nell’amore di Dio e nella mutua carità» (FF 2847).
Riconoscendo nella sua vita una storia di grazia abitata dal Signore e da tanti volti, Chiara invita anche noi ad assumere lo stesso sguardo riconoscente. Per poter ripetere con lei, quando saremo di fronte all’ultimo decisivo passaggio, «Tu, Signore, sii benedetto, che mi hai creata!».