Promemoria di un’Africa vera

Meraviglie e consapevolezze di un viaggio in una regione dell’Etiopia

di Michela Zaccarini
della Redazione di MC

Image 172Devo ricordarmi

Pochi giorni prima di partire ero in ufficio al centro missionario di Imola, avevo da poco chiuso una telefonata con una persona che aveva un’adozione scolastica a distanza. Aveva pianto al telefono comunicandomi che quest’anno non sarebbe riuscita a rinnovare l’adozione perché il figlio aveva perso il lavoro e l’avevano accolto in casa insieme alla moglie e ai bambini. Dovevano risparmiare soldi e non potevano più permettersi la spesa dell’adozione. Nell’appoggiare la cornetta del telefono mi sono detta: “Ricordati di questa e di tutte le persone che fanno sacrifici per sostenere la missione, quando sarai giù”.

Sono partita il 29 gennaio. Quindici giorni, fino al 14 febbraio, e cinque compagni di viaggio: Ivano, Matteo, Roberto, Marco e Paolo. All’inizio dovevano essere solo in due: padre Ivano, segretario delle Missioni, accompagnava padre Matteo, ministro provinciale, in visita ai missionari. Poi, facendomi un po’ di violenza perché avevo il terrore dell’aereo, mi sono aggiunta io, impiegata del centro missionario, oltre che volontaria del campo di lavoro. Poi Marco, elettricista, fra Paolo, dei Fratelli di san Francesco, e infine Roberto, idraulico.

Dopo i primi due giorni ad Addis Abeba, capitale di tre milioni e mezzo di abitanti a 2.300 m d’altezza, partiamo per Jinka: strada dei laghi, Rift Valley e tappa ad Arba Minch. Due notti a Jinka, tempo di inaugurare un nuovo convento e fare visita alla tribù Mursi, per poi spostarci nel convento di Gassa Chare, nel Dawro, 400 km a sud-ovest di Addis.

Posso dire che sono stata abbastanza fedele a quel proposito fatto in ufficio. Ho pensato spesso al bene che al centro missionario di Imola, dove lavoro, vedo avanzare a piccoli e grandi passi giorno dopo giorno. Mi sembrava giusto farlo, anche perché sono testimone privilegiata di questo flusso di bene che parte dall’Italia e arriva, grazie ai missionari, ai fratelli d’Etiopia.

Sono partita credendo di sapere molte cose sulla missione. In effetti, sì, tecnicamente molte cose le sapevo. Sapevo il nome dei missionari, sapevo il numero degli asili e i nomi delle scuole, sapevo in quali villaggi sono i dispensari, sapevo che per i missionari è fatica spostarsi da un luogo all’altro. Ma quando, a metà della prima settimana, mi sono accorta dell’abisso fra quello che sapevo e quello che il mio breve viaggio mi faceva vivere, ho dovuto mandar giù un boccone amaro. Possibile che proprio io, che ogni giorno do informazioni sulle missioni, sulle adozioni e sui progetti non sapessi cosa significano davvero la polvere della jeep, le mura d’argilla di un asilo, le file dei malati ai dispensari?

Donne alla dispari

Penso queste cose, mentre la nostra jeep disegna traiettorie che sulle nostre strade sarebbero da sicuro ritiro della patente, superando persone, gruppi, bambini alla guida di carretti, mandrie di animali magri. Il mio sguardo rimane attento alle donne. Camminano piano, ad andatura regolare, e quanti chilometri percorrano al giorno non è dato sapere.

Ricordo molto bene il volto di una donna che abbiamo incontrato più o meno a metà strada fra Arba Minch e Jinka. Sulla schiena portava una grande quantità di canne tagliate lunghe poco più di un metro. Erano talmente tante, che, legate con spago e stoffa, forse pelle d’animali, erano alte come lei. L’espressione sul suo volto era quella di una pacatissima rassegnazione. Erano le dieci e mezza di mattina, forse le undici. Io ero stanca per il viaggio in jeep, lei forse erano già cinque ore che camminava con quel peso sulla schiena. Non so come ha trovato la forza per salutarmi.

È assolutamente normale vedere donne, e a volte anche bambine, con carichi di quel tipo camminare per decine e decine di chilometri mentre l’uomo che sta al loro fianco non porta alcun peso. E capisco perché nel 2011 volessero dare il premio nobel per la pace a tutte le donne africane (a questo proposito merita di essere visitato il sito www.noppaw.org). Per quanto mi riguarda, mi è bastato il piccolo esercizio di pazienza a Jinka: arrivati in albergo, l’unica a cui i fattorini non hanno preso la valigia è stata la sottoscritta, ovvero l’unica donna del gruppo!

E allora comprendi perché per i frati è così importante che l’istruzione sia per tutti, maschi e femmine. «Insegna a una donna e insegni al villaggio», dice un proverbio africano.

Image 179rnerò presto

Quando, sempre a Jinka, dopo l’inaugurazione del nuovo convento, l’arcivescovo di Addis Abeba, Abune Berhaneyesus Souraphiel, mi ha chiesto cosa mi aveva colpito di più nei miei primi giorni in Etiopia, gli ho risposto così: «grazie a noi occidentali i vostri bambini pensano già ai soldi…». Forse ho usato parole un po’ forti, e l’arcivescovo è rimasto colpito da quella frase, ma lo pensavo, e lo penso, davvero. Ovunque ti trovi, c’è un bambino che ti viene incontro e ti chiede money. A volte poi è un intero gruppo di bambini. La mano è aperta e tesa, oppure strofinano le dita per indicare i soldi. Anche i bambini molto piccoli sanno già queste due parole: abbà (padre) e money (soldi). Così, invece che portare la cultura della democrazia, del dialogo, della libertà (quanti paesi africani desidererebbero la libertà!) portiamo la cultura dei soldi, del profitto… non dico che facciamo apposta noi occidentali, però spesso lo facciamo e non ce ne accorgiamo, soprattutto se siamo turisti poco informati sulla realtà del paese che visitiamo. Ma in questo modo, invece che arricchire veramente il paese, lo impoveriamo. Mi spiego meglio: ad Addis Abeba, la capitale, la maggioranza della gente è poverissima, come nel Dawro e nel resto del paese, ma qui, nella metropoli con più di tre milioni di abitanti, la gente che vedi camminare per strada sembra avere perennemente il volto arrabbiato; nessuno si ferma a chiederti come ti chiami, da dove vieni. Desti interesse solamente perché sei bianco - quindi ricco - e perciò sei la persona giusta alla quale chiedere soldi. Invece, nella piccola provincia del Dawro, dove sono i nostri frati e dove l’economia non si basa ancora principalmente sul denaro, la gente ti incontra per strada, ti viene incontro, ti sorride, ti saluta porgendoti, come d’uso, la spalla destra. Ti chiedono il nome, ti dicono il loro, te lo fai ripetere, un poco ci si racconta l’uno dell’altro, pur dovendosi parlare a gesti. Tutto questo ad Addis Abeba è impensabile: troppo caos, troppo traffico, troppa amarezza in giro per le strade.

Tornerò in Africa presto. E ancora una volta starò accanto ai missionari, perché è grazie a loro che si può incontrare l’Africa vera, quella di cui mi devo ricordare quando sono in ufficio.