Nella piazza il Festival Francescano. L'intuizione che la piazza abitata dalla gente della città sia uno spazio da vivere, da ascoltare, da condividere e uno spazio per parlare è nelle radici della storia del movimeno francescano. A Bologna fu Francesco d'Assisi a farla diventare un'esperienza speciale.
a cura dell’Ufficio Comunicazione del Festival Francescano
Piazza bella piazza
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di Giampaolo Cavalli
frate minore, presidente del Festival Francescano
In un luogo di dotti – Bologna è città universitaria dall’inizio del secondo millennio – il 15 agosto del 1223 la piazza più grande della città si riempì per ascoltare un uomo piccolo, illetterato, con un abito sudicio, spregevole, senza bellezza (Tommaso da Spalato lo descrive così), il santo di d’Assisi.
Le parole di quell’uomo, di Francesco furono ascoltate, accolte, comprese, ammirate e cambiarono i cuori di chi le ascoltava. La cronaca sottolinea che quell’uomo non parlava come un predicatore. Accadde che nella vita della città, attraversata da lotte sanguinose tra gruppi rivali, per quelle parole alcuni trovarono il modo di iniziare una convivenza pacifica mettendo da parte faide antiche. Molti saranno andati in piazza incuriositi per quell’uomo di cui tanti parlavano. Avranno pensato che sarebbe stato uno dei tanti sermoni che erano abituati a sentire nelle tante chiese della città, ma era un evento ed era in piazza e di sicuro bisognava esserci. Francesco d’Assisi trovò il modo di farsi capire. Toccò il cuore! Questa storia prese forma in modo simile in molte altre situazioni e in città diverse nella vita di Francesco e nelle vite degli uomini e delle donne che da allora, generazione dopo generazione, decidono di camminare sulle orme che lui ha tracciato. La piazza luogo di passaggio per chiunque è il luogo dove anche il Festival Francescano prende forma ed è proprio quello a diventare il suo spazio di senso.
Nel luogo comune
In piazza si trova chi da sempre vive in città, chi ci passa per raggiungere un ufficio, entrare in un negozio; c’è chi fa una sosta per ammirare le opere, le architetture, alcuni per ascoltare gli echi di una canzone, chi per un appuntamento, chi alla ricerca di nuovi incontri; altri la attraversano per tornare a casa. C’è il mendicante e chi fa l’elemosina, le persone d’affari, quelle ricche, chi è in pensione, chi un lavoro non ce l’ha, chi sta bene e chi sta soffrendo. Persone di fede, religiose, indifferenti, contrarie, agnostiche, c’è anche chi è arrabbiato… è il luogo di tutti. Abituati, soprattutto nella chiesa, a situazioni asimmetriche, la piazza è lo spazio della circolarità, come quando si è tutti seduti attorno a un tavolo rotondo dove ognuno ha il suo posto ma manca un capotavola a cui spetta l’ultima parola. È complicato anche solo immaginare il pensiero di chi si incontra, a meno che non sia un volto noto come alle volte può capitare; tantomeno saper di essere dalla stessa parte, essere certi di condividere un’appartenenza, oppure sapere che c’è qualcuno alla ricerca di una qualche risposta. Uno è in piazza perché la piazza è, semplicemente, anche il suo luogo, come è il luogo di chiunque in qualche modo la viva anche per pochi istanti. È di ciascuna e di ciascuno.
In piazza si parla, ma in mezzo a tanti per farsi sentire bisogna alzare la voce quando c’è qualcosa da dire, ma serve anche chi ascolta e soprattutto è necessario parlare in modo da farsi capire. Don Matteo, il presidente della CEI, vescovo di Bologna, direbbe che non si dovrebbe parlare da preti. Mi meraviglia sempre il racconto della Pentecoste all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli, là dove si dice che tutta la folla li sentiva parlare nella propria lingua pur essendo di tanti popoli diversi (At 2). In piazza ci sono tutti e il gran rumore che attira l’attenzione può anche cedere il posto a quell’esperienza dove ognuno sente parlare nella propria lingua.
Dove cercare insieme
La piazza durante il Festival Francescano diventa il luogo dove dare voce a tante voci, alcune gridate, altre bisbigliate, alcune a creare un mormorio di sottofondo. Sono i grandi nomi che accompagnano, dal tavolo grande, le esperienze personali che aprono squarci nella vita e raccontate nell’intimità di un piccolo cerchio, oppure le chiacchiere davanti a un caffè o sfogliando un libro. La via sembra essere quella di provare a mettersi in relazione, senza pretendere di trovare conferme, bensì nella certezza di poter fare qualche passo assieme. Ciascuno e ciascuna interpellati, provocati a riconoscere parole che possano essere comprese nella propria lingua materna, quella lingua che è sinonimo di ingresso nella vita. In piazza da sorelle e fratelli che provano a cercare insieme, provocati a individuare echi di vangelo nelle storie di chi crede, di chi è stanco di credere, di chi non crede più o non ha mai creduto. Ci si scopre tutti cercatori di senso e di bellezza. Chi crede o ha creduto ha la nostalgia di una bellezza qualche volta trovata e che ha dato senso ai passi della vita. In piazza ci si sta accanto, senza sapere il perché dell’altro. Interpellati insieme, cercando nella fatica di un orizzonte intravisto e mai definitivamente raggiunto. Chi crede per scoprire nelle storie di chi non crede il senso della propria continua ricerca, chi non crede accanto a chi crede, fratelli e sorelle senza la pretesa di essere i soli nella verità o di possederla.
La piazza diventa un luogo dove tutti possiamo imparare a starci accanto scoprendo il valore della ricerca di ognuno, individuando nella condivisione di domande che nascono da una comune ricerca di senso l’appartenenza alla stessa terra. Per alcuni sarà la casa comune, l’esigenza del riconoscimento della dignità di ciascuna e di ciascuno, la presa di posizione contro le ingiustizie. Per altri sarà scoprire come tutto sia dono, la terra, il sole, la pioggia, i fratelli, le sorelle, sarà ricordare che finché c’è povertà e ingiustizia non si può pensare di aver fatto la propria parte; diventa occasione per individuare le parole per ringraziare Dio di essere parte di una grande famiglia che ci fa tutti sorelle e fratelli, pur da provenienze lontane e diverse.
La buona notizia tra la gente
In un momento in cui Gesù, il suo vangelo, e soprattutto la Chiesa, non sembrano più così interessanti, ciò che viviamo ci chiede di cambiare prospettiva per scoprire ancora la vitalità del vangelo. È chi ha incontrato il Signore a dover scegliere di lasciarsi interpellare da chi incontra. Saremo sempre di più chiamati a non aspettare che le chiese si riempiano per dire la buona notizia, ma piuttosto potremo imparare a stare lì dove la gente passa e condividere le loro ricerche, le loro domande, le preoccupazioni e lì riconoscere la sua Parola viva ancora. Stare nella piazza che è il luogo di tutti, anche di chi crede, ma soprattutto il luogo di tutti ci domanda innanzitutto di ascoltare e comprendere per poter trovare nel nostro vocabolario le parole che meglio si possono mettere accanto ai tanti attraversamenti della piazza. Oggi più che negli anni passati ci stiamo accorgendo quanto non si possa pensare di insegnare e basta. o anche di avere qualcosa di interessante da dire. Sappiamo che la via passa dall’ascolto, dalla vicinanza, dal riconoscere i desideri e i percorsi di chi incrociamo perché in quei percorsi è possibile intravvedere e riconoscere la novità che il vangelo ci annuncia.
La piazza è luogo per tanti Zaccheo, quelli che di nascosto ascoltano; incuriositi, si avvicinano con domande importanti e poi spariscono, ritornano nell’anonimato. Non sarà forse proprio nel semplice, cordiale e gratuito mettersi accanto di qualcuno che crede, nelle domande intense di chi semplicemente ha il coraggio e la necessità di farsi e fare domande, nell’invitarsi a casa dell’altro che si insinua per un momento uno scintilla di luce? Per un momento si intravvede un senso, per alcuni resta, per altri dopo un po’ è tutto dimenticato. Rimane il desiderio e l’attesa di fare qualche passo ancora insieme perché quei passi fatti insieme salvano la nostra vita e tanto ci piacerebbe fossero luce e bellezza anche per altri. La piazza diventa luogo di speranza quando tutti insieme ascoltiamo e ci lasciamo illuminare da qualche bagliore di luce che fa anche delle tenebre un luogo, almeno per un po’, luminoso.