Il vangelo nel vagone
I Cappuccini possono (e devono!) riscoprire la loro identità di frati del popolo.
di Dino Dozzi
Direttore di Messaggero Cappuccino
«La ragione, che al parer mio fa il cappuccino capace di una lunga vita, assai più di altri Ordini religiosi, è quella appunto che lo rende caro a molti e che, se non piglio errore, fa la sua essenza.
Il cappuccino è il frate del popolo»: così scrive nel 1847 Vincenzo Gioberti (Il Gesuita moderno, IV), che passa poi a citare quella famosa pagina de I promessi sposi, nella quale il Manzoni presenta in modo entusiasta ed insuperabile i cappuccini come frati del popolo; manca però nel Manzoni l’espressione “frati del popolo”, la cui fortunata paternità va dunque riconosciuta al Gioberti, ma il significato c’è proprio tutto: «Tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito da’ potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l’elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino».
Leggendo questa descrizione manzoniana o l’espressione “frati del popolo”, come non pensare soprattutto ai nostri fratelli laici questuanti, quelli di città e quelli di campagna, come venivano distinti fino a cinquant’anni fa, cioè fino a quando c’erano? Comunque, l’espressione incoraggia non solo a gioire e lodare il Signore per le glorie di famiglia, ma ad interrogarci con lealtà e coraggio sulla verità dell’espressione “i cappuccini: frati del popolo” anche nel nostro presente, senza dimenticare l’Ammonizione VI di san Francesco: «È grande vergogna per noi servi del Signore il fatto che i santi operarono con i fatti e noi raccontando e predicando le cose che essi fecero ne vogliamo ricevere onore e gloria» (FF 155).
Come frati minori
Non esiste autentica vita cristiana o religiosa che non sia vita evangelica. Il vangelo è la regola delle regole per tutti, ma ogni spiritualità ha un suo modo caratteristico, un suo stile nel leggere e vivere il vangelo. Il modello ispirativo fondamentale della nostra vita evangelica cappuccina è san Francesco, che chiama se stesso e coloro che si uniscono a lui “frati minori”. Agli occhi di Francesco il cuore della rivelazione evangelica è che siamo tutti figli del Padre e dunque tutti fratelli tra di noi: è questa la bella notizia da vivere con riconoscenza e da portare con gioia a tutti, con la vita, prima che con le parole.
Ma perché anche minori? Francesco è innamorato della povertà e della minorità perché Cristo è vissuto umile e povero e si è identificato con i poveri e i bisognosi: «Tutti i frati cerchino di seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo» (Rnb IX, 1; FF 29); «Io, frate Francesco, piccolo, voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo» (Uv 11-2; FF 140). L’umiltà e la povertà sembrano essere le modalità tipiche della vita evangelica di Francesco, ma il nome che portano di “frati minori” suggerisce di collegare la modalità della minorità alla fraternità.
Per Francesco, la grande scoperta e la grande scelta è quella della fraternità, universale e incondizionata: vuol vivere da minore sempre e di tutti per poter vivere da fratello sempre e di tutti. Questo rivela non solo una precisa gerarchia di valori, ma anche una concezione della fraternità che, volendo includere tutti, non può far a meno di porre coraggiosamente i frati a livello degli ultimi. Per essere davvero i frati del popolo, bisogna vivere da fratelli minori sempre e di tutti.
Animatori di fraternità
Ma ecco la domanda imbarazzante: siamo ancora “i frati del popolo”? Un po’ forse sì. Ma ci siamo un po’ troppo clericalizzati e conventualizzati. Abbiamo troppi posti fissi da ricoprire, che non permettono più alla fantasia e al cuore di inventare modi nuovi e più adeguati di presenza e di apostolato nel mondo di oggi. Abbiamo ristretto il concetto di “fraternità” quasi esclusivamente ai “frati”, abbiamo costruito troppe mura attorno ai conventi e abbiamo accettato e facciamo fatica a scrollarci di dosso troppi “servizi” carichi di responsabilità. Forse siamo meno “frati del popolo” perché siamo meno “frati minori”.
L’ipotesi-proposta potrebbe essere quella di tornare ad essere frati minori, per tornare ad essere frati del popolo. La gente di oggi non è più quella dei tempi di Gesù, dei tempi di Francesco, dei tempi dei primi cappuccini o di quelli del secolo scorso. Ritornare ad essere frati del popolo oggi significa tener conto della complessità, del pluralismo e della frammentazione che caratterizzano il nostro contesto culturale, come pure dell’individualismo e del relativismo; e insieme della nuova cultura di massa imposta e omogeneizzata dai mezzi di comunicazione. Nel popolo di oggi c’è indifferenza e sazietà, ma anche molta attesa religiosa che spesso degenera in superstizione e magia. Viviamo oggi in un mondo post-cristiano, che ha molte perplessità nei confronti delle religioni, ma anche molta sete di spiritualità vera.Nella prima Regola di san Francesco leggiamo: «Tutti i frati, in qualunque luogo si trovino per servire presso altri o per lavorare, non facciano né gli amministratori né i cancellieri, né presiedano nelle case di coloro a cui prestano servizio... ma siano minori e sottomessi a tutti coloro che sono in quella stessa casa» (Rnb VII, 1; FF 24). Come tradurre per il nostro oggi queste indicazioni di fraternità e di minorità? L’ipotesi-proposta potrebbe essere quella di lasciare progressivamente le attività gestite in proprio da noi, per passare ad una presenza di appoggio e di animazione di iniziative gestite da altri (Stato, Chiesa, Associazioni, privati): da gestori di attività in proprio ad animatori di fraternità. Questa impostazione - che non richiederebbe particolari capacità manageriali, grandi strutture logistiche, organizzative, concorrenziali e numeriche - ci metterebbe in grado di offrire un tipo di servizio più consono alla nostra vocazione e al nostro carisma, valorizzerebbe maggiormente le qualità umane e religiose di ogni frate, ci permetterebbe di ritornare ad essere “i frati del popolo”.
Tra i pendolari
L’80% della gente oggi in Italia non frequenta le chiese, ma più dell’80% dei sacerdoti e dei religiosi italiani continua ad occuparsi dello sparuto gregge che costituisce il 20% della nostra gente: chi si occuperà di quell’80%? Non potrebbero o non dovrebbero essere i “frati del popolo”? La quantità crescente di impegni “religiosi” può toglierci il tempo materiale e psicologico per uscire dalle mura “istituzionali” per vedere e sentire come là la gente vive, sente e soffre. Per stare semplicemente con questa gente, da fratelli minori, condividendo fatiche, gioie e dolori. Senza troppe pretese “missionarie”, “apostoliche” ed “evangelizzatrici”. Ascoltando veramente, e prendendo la parola – come suggeriva san Francesco – «solo quando vedranno che piace al Signore» (FF 43), soprattutto per aiutare a riconoscere il bene vicino, presente nella quotidianità di ognuno. Lungo la storia i cappuccini hanno saputo scrivere uno straordinario vangelo di carità e di vicinanza al popolo. È proprio del nostro stile essere presenti non ai vertici organizzativi o culturali, ma alla base, tra la gente, soprattutto quella più povera e indifesa, una presenza evangelizzatrice in quanto presenza fraterna.
Un amico mi dice ogni tanto: «Se il tempo che i frati passano a predicare in chiesa lo passassero in treno tra i pendolari, otterrebbero più risultati da ogni punto di vista». La nuova evangelizzazione ha bisogno soprattutto di nuovi evangelizzatori, capaci non solo di annunciare il vangelo, ma di aiutare a scoprirlo già presente all’interno di tante relazioni umane e di tanta quotidianità. Dovrebbero essere i frati del popolo i primi a raccogliere l’invito di Papa Francesco ad uscire dalle chiese e dai conventi per andare tra la gente, soprattutto nelle periferie geografiche, sociali, economiche e religiose, da fratelli minori appunto, con semplicità. È stato detto che c’è vera evangelizzazione dove un povero dice ad un altro povero dove tutti e due possono trovare da mangiare. Lo si può dire dall’altare, ma - forse in modo ancor più convincente - in treno. Ovviamente senza cellulare all’orecchio.