Non si può andare senza restare
L'appartenenza a Gesù è l'unica condizione per diventare apostolo
di Roberto Tadiello
frate cappuccino, biblista
All’indomani della risurrezione, gli apostoli si riuniscono “nella stanza al piano superiore” di Gerusalemme (At 1,13).
Pietro delinea il criterio fondamentale per completare il numero dei Dodici: occorre scegliere tra coloro che hanno condiviso il cammino di Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo (cf. At 1,21-22). La richiesta rivela una profonda consapevolezza: i testimoni della risurrezione devono essere stati compagni di strada del Maestro. L’invito di Gesù “Venite!” assume un significato particolare. Egli può pronunciarlo perché è lui stesso venuto. La comunione lungo le vie della predicazione, durante i pasti fino all’ultima Cena, diventa preparazione essenziale per l’annuncio. Senza questa intimità, i discepoli non avrebbero nulla da dire. Lo “stare con” Gesù emerge dunque come premessa indispensabile della missione. Marco lo evidenzia con particolare forza quando descrive la costituzione dei Dodici: «Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli – perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14-15). La sequenza risulta illuminante: prima la comunione, poi l’invio. La condivisione della vita con il Maestro non rappresenta un semplice periodo di formazione, ma costituisce il fondamento stesso della testimonianza apostolica.
Nella corte celeste
Il criterio dello “stare con”, che abilita alla missione, affonda le sue radici nelle Scritture dell’Antica Alleanza. Un esempio paradigmatico si trova nel capitolo sei del libro del profeta Isaia, dove viene raccontata la sua vocazione profetica. Nel tempio di Gerusalemme, il profeta viene ammesso a contemplare direttamente il consiglio divino. La scena si apre con una visione maestosa: il Signore “seduto su un trono alto ed elevato” (Is 6,1), circondato dai serafini che proclamano il triplice “Santo” (Is 6,3). La dinamica della vocazione si sviluppa attraverso passaggi significativi. Il profeta, colto da profondo stupore per la sua indegnità, viene sottoposto a un rito di purificazione mediante il carbone ardente (Is 6,6-7). Nel silenzio che segue il rito purificatore, risuona la voce di Yhwh stesso nel consiglio divino con una domanda cruciale: «Chi manderò e chi andrà per noi?» (Is 6,8a). La risposta di Isaia rivela una disponibilità sorprendente: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8b). La missione riceve così il suo mandato nell’assemblea celeste.
La stessa scena celeste si ripete nel capitolo 40 di Isaia. Il profeta assiste ancora una volta a un dibattito che si svolge nel consiglio divino. Le voci si susseguono in un dialogo articolato: «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio» (Is 40,1). Una voce dà l’ordine di consolare, parlando a nome del Signore. Un’altra voce risponde: «Che cosa dovrò gridare?» (Is 40,6). L’ambientazione celeste fa da sfondo a una scena drammatica in cui il profeta, partecipe del consiglio divino, ascolta le voci che dialogano e assiste al conferimento della missione di consolazione. Il testo riproduce gli elementi tipici delle scene di vocazione profetica: Dio incarica qualcuno di una missione, voci diverse dialogano tra loro e il profeta è presente come testimone privilegiato dell’assemblea divina. La corte celeste, formata dagli angeli-messaggeri, diventa il luogo in cui si decide la missione di consolazione per Gerusalemme. Il profeta, in qualità di membro di questo consiglio divino, ascolta e registra fedelmente il dialogo tra le voci celesti.
Stare con Gesù
La peculiarità di questa scena rivela un elemento sorprendente: l’ordine divino si esprime al plurale: «Consolate, consolate il mio popolo» (Is 40,1). Non si tratta più della chiamata di un singolo profeta, come nel capitolo sesto, ma dell’investitura di un’intera comunità. I destinatari dell’incarico divino sono gli stessi esuli di Babilonia, chiamati a diventare messaggeri di consolazione per i loro fratelli. La voce celeste affida proprio a coloro che hanno vissuto in prima persona il dramma dell’esilio il compito di portare la consolazione. Gli esuli, trasformati da vittime in annunciatori, ricevono l’ordine di preparare la via del ritorno: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio» (Is 40,3). La comunità degli esiliati diventa così il soggetto collettivo della consolazione, anticipando in modo sorprendente quella dimensione comunitaria della testimonianza che caratterizzerà l’esperienza della Chiesa nascente. Le Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento rivelano un principio fondamentale: per essere “nel mondo” in missione, è necessario vivere un’esperienza profonda di appartenenza. Nel contesto veterotestamentario, il profeta deve far parte del consiglio divino e essere ammesso a quella corte celeste dove si decidono i destini del popolo e si affidano le missioni di consolazione.
Nel Nuovo Testamento, il criterio si personalizza e si radicalizza: l’appartenenza richiesta è quella a Gesù stesso, comprovata dall’aver condiviso il suo cammino “dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato assunto in cielo” (At 1,21-22). In entrambi i casi, l’autorevolezza della testimonianza scaturisce da una presenza: presso il trono dell’Altissimo per i profeti e accanto al Maestro di Nazaret per gli apostoli. Tuttavia, lo “stare con Gesù” rivela una peculiarità discriminante rispetto all’immagine del consiglio divino: il Rabbì di Nazaret assegna ai suoi discepoli un posto preciso: devono stare dietro di lui. Il Maestro precede, i discepoli seguono. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che “uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt 23,8).
L’episodio di Cesarea di Filippi illustra in modo drammatico questa verità. Pietro, non volendo accettare l’annuncio della passione, si oppone al cammino messianico di Gesù. La reazione del Maestro è di una durezza sorprendente: «Va’ dietro a me, Satana!» (Mc 8,33). La pretesa di Pietro risulta demoniaca proprio perché troppo umana: egli vorrebbe un Messia conforme alle attese mondane, ma un simile Messia non potrebbe salvare nessuno. Nel tentativo di resistere al disegno divino, Pietro ha abbandonato il suo ruolo di discepolo e deve essere richiamato a tornare indietro e seguire il Maestro.
La rivoluzione del servizio
Dal primato assoluto di Gesù scaturisce un risvolto decisivo: la radicale uguaglianza di tutti i discepoli. Non si tratta di negare la diversità di biografie, talenti e ruoli, ma di escludere ogni forma di dominio reciproco. L’episodio dei figli di Zebedeo è illuminante a questo proposito: la loro richiesta di sedere alla destra e alla sinistra del Signore glorificato rivela una tentazione di potere che persiste. La risposta di Gesù, però, ribalta la prospettiva e indica la via della croce come unico cammino di sequela autentica (Mc 10,35-45).
Stare con Gesù e dietro a Gesù comporta un preciso modo di “stare nel mondo” da parte della comunità dei discepoli. Il termine usato per indicarlo è quello di “servizio” (diaconia). Tuttavia, non si tratta di ridurre la diaconia al pur fondamentale aiuto ai poveri, che resta centrale nell’attenzione di Gesù e dei suoi discepoli. La diaconia esprime piuttosto un’esistenza totalmente orientata al bene degli altri, un vivere-per-gli-altri che caratterizza l’intera vita di Gesù fino alla morte, come Marco sintetizza nel detto sul Figlio dell’uomo: «Il Figlio dell’uomo… non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Abbiamo qui la variante fondamentale della cristologia e dell’ecclesiologia della missione, il capovolgimento radicale delle logiche di potere che avevano già contagiato i discepoli. Al vertice della vita ecclesiale sta colui che si dedica totalmente all’amore, diventando servo di tutti, sull’esempio di Gesù stesso. In questo servizio che giunge fino al dono della vita si rivela il nucleo stesso della missione salvifica di Cristo, senza il quale non esisterebbe né discepolato né vangelo del Regno.