Cercatori dell’Assoluto

Breve storia del pellegrinaggio

 di Franco Cardini
storico

 Il catechismo di san Pio X alla domanda «Dov’è Dio?» rispondeva: «Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo». E sant’Agostino aveva detto di cercarlo dentro sé stessi. Perché allora da sempre gli uomini si muovono alla ricerca delle dimore di Dio?

I fenomeni della natura e i ritmi della vita sono stati forse i primi veri “antenati di Dio”. Quanto è stata lunga la vicenda millenaria che ci ha condotto a prostrarci o a inginocchiarci dinanzi a un astro o a una pietra che rappresentavano la Sua essenza, che racchiudevano il Suo potere? E quando è potuto accadere che a quella Forza arcana e mirabile abbiamo per la prima volta attribuito un nome, che abbiamo potuto chiamarla “Signore” al pari del capo della nostra tribù oppure addirittura “Padre” al pari dell’uomo che ci aveva nutrito e allevato, che ci aveva insegnato a cacciare e a seminare proteggendoci dai pericoli e che ci aveva consolato quando eravamo atterriti dalle paure notturne? I pochi millenni che separano l’oggi da quel primo istante sono un tempo breve come un batter di ciglia o un turno di guardia nella notte rispetto ai molti millenni del nostro ignaro vagare circondati da una realtà per noi ostinatamente incomprensibile.

 Sulle orme di Gesù

Il pellegrinaggio cristiano si distingue fin dalle origini da ogni altra pur analoga forma devozionale presente sia nell’ebraismo, sia nel mondo pagano o nei vari sistemi mitico-religiosi, come l’induismo e il buddhismo; ma tutti conoscono l’idea e sperimentano il viaggio verso un luogo sacro. L’aliyah ebraica è propriamente un “salire” a Gerusalemme per adorare Dio nel punto della terra più pieno della sua Shekhinah. Il pellegrinaggio definito con vari termini nei sistemi mitico-religiosi a carattere immanente è un viaggio verso un luogo, un oggetto, un monumento nel quale si è manifestata una forza sacrale, e viaggiando verso il quale o risiedendovi si crede o si spera di assorbire parte di quell’arcana forza.
Il pellegrino cristiano volge i suoi passi prima di tutto verso le testimonianze storiche del passaggio di Gesù sulla terra, il punto nel quale il divino ha fatto in modo centrale e definitivo irruzione nella storia santificando la stessa natura umana e in un certo senso accorciando la distanza esistente tra il sacro e l’umano. Il cristiano dei primi secoli non avvertiva la santità di Gerusalemme tanto come luogo privilegiato della dimora di Dio tra gli uomini, quanto piuttosto come luogo storico della passione da una parte e come figura escatologica dall’altra. Dato che nella valle di Giosafat tutto il genere umano si sarebbe adunato per il Giudizio universale, il viaggio alla sua volta diveniva immagine della vita stessa. A Gerusalemme si andava originariamente per lasciare questa vita e venir sepolti nella valle di Giosafat, pronti a risorgere nel giorno finale.
In tutta la Terrasanta, ma in modo tutto particolare a Gerusalemme, la devozione e l’interesse turistico-economico portarono all’individuazione – c’è chi usa il termine inventio nel doppio significato latino e italiano – di tanti luoghi sacri legati ad ogni pagina evangelica. Negli ultimi secoli l’archeologia ha contribuito notevolmente a fare una benemerita opera di discernimento. Sorsero poi basiliche e chiese di grande valore anche artistico: basti pensare al Santo Sepolcro e a Santa Sofia. E fuori dalla Terra Santa sorsero complessi ecclesiali che intendevano riprodurre i luoghi santi: si pensi ad esempio al complesso di Santo Stefano a Bologna.

 Segno di contraddizione

Oggi, la città di Gerusalemme è de facto la capitale dello stato ebraico d’Israele, ma de jure, sul piano del diritto internazionale, stiamo assistendo a una situazione di rara e drammatica complessità. A vario titolo e per molte ragioni – senza nulla voler togliere a molte città-santuario presenti nel mondo e collegate a vari culti – è indubbio che, se esiste una “dimora di Dio” sulla terra, essa è Gerusalemme. Al tempo stesso però – o forse proprio per questo – essa resta un segno di scandalo e di contraddizione. Che non sia in ultima analisi proprio questa la chiave segreta della sua presenza nei millenni, un mistero che tale deve restare? E comunque, nonostante tutto, Gerusalemme resta ancora la meta principale dei pellegrinaggi, soprattutto dei fedeli delle tre religioni monoteistiche, e non solo.
Fin dai primi secoli cristiani nacque anche un nuovo genere testimoniale e letterario, quello dell’Itinerarium ad Ierusalem, o ad Terram sanctam, una sorta di diario di viaggio, con distanze, tappe, servizi fruibili, impressioni. Molto noto è lo scritto di Eteria, verso la fine del IV secolo: questa matrona forse galiziana viaggia per mare fino all’Egitto, poi, attraverso la penisola del Sinai, arriva a Gerusalemme, fornendoci preziose informazioni archeologiche e liturgiche. Tra i pellegrini che scelsero di stabilirsi per sempre in Terrasanta possiamo ricordare la matrona Melania che nel 371 aveva fondato un monastero femminile sul monte Sion e pochi anni più tardi Gerolamo, il traduttore della Bibbia dall’ebraico al latino: era venuto da Roma a Gerusalemme nel 385, raggiunto da due sue alllieve, la matrona Paola e sua figlia Eustochio: insieme visitarono la Terrasana per trasferirsi poi nella più tranquilla Betlemme. Si andò sviluppando sia la letteratura di pellegrinaggio sia quella contra peregrinos, più interessata alla peregrinatio animae, per arrivare poi, al tempo della Riforma, alla dura requisitoria di Erasmo da Rotterdam. Comunque la letteratura di pellegrinaggio, sia a Gerusalemme sia verso altre mete, si sviluppò anche nei secoli successivi.
La Mecca, importante città carovaniera, era una città santa già prima che Muhammad la eleggesse a santuario dedicato solo ad Allah. Lui per primo vi compì il grande “pellegrinaggio dell’addio” e la indicò come la definitiva “dimora di Dio”. Al centro della città, rigorosamente interdetta ai non musulmani, si situa lo “spazio sacro”, un’immensa moschea di oltre 160.000 metri quadrati, che può contenere fino a 300.000 persone. Dentro la moschea è custodita la Pietra nera. La Mecca è la meta principale dei pellegrini musulmani, che però chiamano “la Santa” anche Gerusalemme, dove Abramo stava per sacrificare il figlio Isacco. Nella spianata del tempio essi costruirono le due grandi moschee di al-Aqsa e della “Cupola della Roccia”. Secondo un detto del Profeta, una preghiera recitata nella moschea della Mecca vale come 100.000 preghiere fatte in qualunque altro luogo; una nella moschea di Medina ne vale 1.000; una nella moschea al-Aqsa, 500.

 Conversione o rispetto

La Terrasanta, ma anche l’Italia e la Spagna, conservano preziose testimonianze di continuità di culto, ma anche di discontinuità e di reciproca “conversione” di edifici sacri nella complessa dinamica dei rapporti tra le tre grandi religioni abramitiche e i precedenti sistemi mitico-religiosi. Basti pensare al Pantheon di Roma, o alla cattedrale di Siracusa passata da tempio di Atena a chiesa di Santa Lucia, o al celebre tempio di Minerva in Assisi – che tanto colpì il “pellegrino” Goethe – convertito dai cristiani in chiesa dedicata alla Vergine. La basilica cristiana di San Vicente a Cordoba, risalente al V secolo, nel 756 divenne moschea e nel 1236, caduta la città andalusa in mani cristiane, fu convertita nella cattedrale dell’Immacolata Concezione di Maria. Analogo fato spettò allo splendido minareto di Siviglia che divenne poi il campanile chiamato Giralda. I pellegrinaggi servono anche a toccare con mano la complessità della storia e ad allargare l’orizzonte della mente e del cuore, in vista di una tolleranza che potrebbe evitare “guerre di religione” purtroppo già conosciute, favorendo il rispetto per i diversi sentieri che hanno guidato e guidano ancora i «pellegrini dell’Assoluto».
Tante sono state nel passato, le mete di pellegrinaggio e tante sono ancora oggi oltre Gerusalemme e la Mecca. Si pensi a Benares, Compostela, Lourdes, Fatima, Loreto, Pietrelcina, Medjugorje, Padova. Sono pellegrinaggi ora compiuti non più solo a piedi e non solo per motivi strettamente religiosi. Ma continuo a credere che siano soprattutto pellegrini i privilegiati ai quali accade talora di aver la sensazione di star sul punto di accedere alla dimora di Dio o di varcarne gli stipiti. Non sono queste le dimore di Dio. Ma forse la luce che da esse promana ne reca il riflesso della fede, l’aroma della speranza, il respiro della carità.

 

 

 

Dell’Autore segnaliamo:
Le dimore di Dio. Dove abita l’eterno
il Mulino, Bologna 2021, pp. 376