Per le vie del mondo

L’itineranza francescana come stile evangelico dell’essere cristiano 

di Chiara Francesca Lacchini
clarissa cappuccina di Fiera di Primiero

 Il titolo di questa “chiacchierata” prende le mosse da un insegnamento di Francesco d’Assisi, contenuto nella Regola non bollata al capitolo XIV e nella Regola bollata al capitolo III. I due testi differiscono in alcune parti che possono dare indizi sulle mutate condizioni di vita della prima fraternità nel tempo che passa.

Quanto riportato nella Regola non bollata è esclusivamente dedicato ad offrire una mappa su come i frati devono andare per il mondo: «Quando i frati vanno per il mondo, non portino niente per il viaggio, né sacco, né bisaccia, né pane, né pecunia, né bastone (Cfr. Lc 9,3; 10,4-8; Mt 10,10). E in qualunque casa entreranno dicano prima: Pace a questa casa (Cfr. Lc 10,5). E dimorando in quella casa mangino e bevano quello che ci sarà presso di loro (Cfr. Lc 10,7). Non resistano al malvagio; ma se uno li percuote su una guancia, gli offrano l’altra. E se uno toglie loro il mantello, non gli impediscano di prendere anche la tunica. Diano a chiunque chiede; e a chi toglie il loro, non lo richiedano (Cfr. Mt 5,39 e Lc 6,29 e 30)».
Secondo Felice Accrocca, all’interno della Regola non bollata questo capitolo e il primo in cui il vangelo viene indicato come il nucleo della vita di sequela, meglio di altri, esprimono il fondamento della vita dei frati minori: una sequela vissuta in povertà, in pace, in espropriazione, con disponibilità radicale, nell’ospitalità, con mitezza, non violenza e gratuità.
Quando i redattori della Regola bollata cercarono di fare sintesi di quanto contenuto nel primo documento, le norme per l’itineranza divennero alcuni versetti inseriti all’interno di un ampio capitolo, il III appunto, assieme ad altre indicazioni sul Divino Ufficio e sul digiuno. Altri passaggi degli Scritti di Francesco contengono insegnamenti riconducibili al modo di essere itineranti, prima fra tutti la necessità di custodire la consapevolezza che i frati sono «come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà e umiltà», ovunque si trovino (Rb VI,2).

 Un tempio interiore

È bello prendere atto della portata profetica dell’intuizione di Francesco, che sembra dire delle cose piuttosto scontate per una parte della Chiesa contemporanea, ma che non lo erano affatto nel XIII secolo, dove le nuove forme itineranti di vita consacrata si confrontavano con la tradizionale stabilità dell’esistente, consolidato da quasi un millennio, e il nuovo non di rado era visto con un certo sospetto. E se la forma itinerante di Francesco e dei suoi fratelli trovò libera cittadinanza, non è da attribuire alla capacità di coglierne la portata profetica ma, in parte, alla lungimiranza di alcuni curiali che, avendo intuito il potenziale che la nuova forma di spiritualità custodiva, e l’enorme espansione che la primitiva fraternità stava avendo, cercarono di portarla più possibilmente “dentro” la custodia ecclesiale sfruttandola per il bene del popolo di Dio.
Alcune biografie del santo ci tengono a far comprendere come, pur dentro l’itineranza e il tentativo iniziale di vivere in luoghi provvisori e precari che avrebbero potuto minare i valori forti di una vita spirituale quali il silenzio, la solitudine e la custodia di se stessi, Francesco aveva trovato il modo di abitare gli spazi di una “cella interiore”.
Tommaso da Celano ci testimonia che spesso pregava di notte e ricercava luoghi solitari e quando tutto questo non era possibile «faceva un tempio nel suo petto». Infatti «cercava sempre un luogo appartato dove potersi unire, non solo con lo spirito, ma con le singole membra al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola con il mantello. E se a volte era privo di questo, ricopriva il volto con la manica per non svelare la manna nascosta. Sempre frapponeva fra sé e gli astanti qualcosa, perché non si accorgessero del contatto dello Sposo: così poteva pregare non visto anche se stipato tra mille, come nel cantuccio di una nave. Infine, se non gli era possibile niente di tutto questo, faceva un tempio del suo petto. Assorto in Dio e dimentico di sé stesso, non gemeva né tossiva, era senza affanno il suo respiro e scompariva ogni altro segno esteriore» (Vita seconda di Tommaso da Celano, n. 94).

 Lo stile itinerante

Cosa supportava in Francesco la convinzione che l’itineranza fosse “il modo” per annunciare il vangelo? Il vangelo stesso, che ben conosceva e ruminava, attraverso cui gli era chiaro che vi è un’unica certezza possibile a coloro che hanno rinunciato a tutto: seguire le orme del Signore Gesù Cristo che non aveva luogo dove posare il capo (cf. Mt 8,18-22). Mi piace pensare che Francesco avesse compreso in parte la lezione di 2Sam 7, dove Davide esplicita il desiderio di ogni credente, convinto che la spiritualità si esprima nel poter fare qualcosa per Dio. Il testo biblico ricorda che sarà Dio a fare qualcosa per l’uomo, e precisamente “una casa”. Alcuni esegeti ipotizzano che quel versetto, alla lettera, potrebbe suonare con: «Dio farà di te una casa».
Anche Francesco non sfugge alla logica espressa da Davide, quando al capitolo XXII della Regola non bollata dice: «E sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo» (Rnb XXII). Ma poi di fatto testimonia che ciò che serve davvero nella vita è diventare custodi di una presenza piuttosto che cultori di luoghi. E se rimanere lungo la via fosse stato per Francesco un modo per far sì che Dio stesso costruisse la sua casa con lui e con i fratelli, una casa aperta per chiunque incontrassero per la via? Andare per via percorrendo il mondo, forti della mitezza del Cristo e sicuri di trovare riparo, rilancia per noi l’idea che essere credenti alla maniera di Francesco possa essere l’occasione per offrire a tutti spazi di accoglienza e dialogo, dove il racconto dei sentimenti e degli affetti prevalga sulla razionalità della dottrina.
Il teologo Congar parlava di “Chiesa della soglia”; le parole e gli insegnamenti di Francesco potrebbero farci sognare una “Chiesa della strada”, abitata da persone con una fede incerta, dubbiosa, poco “ortodossa”; fratelli e sorelle capaci di costruire ponti tra l'oggettività della dottrina teologica, morale e liturgica, e la soggettività variegata di coloro che si incontrano sulle piazze e nelle vie, in cerca di vita, di amore, di bellezza, qualche volta di Dio magari senza saperlo. Forse Francesco ha compreso che un modo possibile per fare certi incontri è “stare fuori”, farsi mendicante, itinerante, pellegrino. Come anche che per vivere tutto questo era necessario essere poveri, ricchi di fede in quel Dio che dona il suo regno a coloro che non hanno altri in cui confidare se non Lui. La povertà di Francesco non è la scelta di chi non vuole avere nulla ma è la scelta di chi vuole essere libero di muoversi senza gli impedimenti che le cose possono dare; la povertà di Francesco è uno stile relazionale che corre anche il rischio di trovarsi una porta sbattuta in faccia da quelli che questo stile avrebbero dovuto conoscerlo e praticarlo (pensiamo al racconto della vera letizia).

 Nulla da difendere

L’itineranza ci spinge ad andare in profondità nel concetto francescano di povertà, e ci aiuta a coglierne lo stretto legame con le indicazioni evangeliche riportate nel III capitolo della Regola non bollata: non resistere al malvagio, porgere l’altra guancia, dare a chiunque chieda, ecc… Colui che sceglie di vivere da povero, infatti, non accampa pretese da proprietario e, pertanto, nulla ha da difendere. Il povero in spirito considera, inoltre, che ogni bene appartiene al Signore e a lui va restituito, abitando il mondo come terra di doni dati non per il vantaggio di pochi, ma per essere condivisi, così che ognuno diventi il tassello del multiforme mosaico della fraternità. Una bella provocazione in vista del giubileo in cui tutti siamo invitati ad essere “pellegrini di speranza”. Persone disposte a rimanere per la strada, cercatori di Dio perché cercatori appassionati di fratelli, mandati e non installati nella trincea di appartenenze umane, fedeli a quel Signore e Pastore che abita con amore gli smarrimenti dell'uomo.