Camminare con Hagar è stata un’opportunità per conoscere quel “Dio che mi vede”, e per aprire cammini di dialogo e confronto a più voci. L’incontro, al quale hanno partecipato Maria Elena Cembali e il pastore della Chiesa Evangelica valdese di Rimini Alessandro Esposito, è avvenuto il 14 aprile 2024 a Faenza, nella chiesa di San Francesco.
a cura di Barbara Bonfiglioli
Dio di Hagar
L’egiziana che incontra Dio
di Maria Elena Cembali
studiosa di dialogo interreligioso
La Bibbia è ricca di vicende che ci narrano lo sguardo amorevole di Dio verso l’umanità e le svolte esistenziali che tale sguardo, se accolto, può generare.
Fra queste ve n’è una, dispiegata nei capitoli 16 e 21 di Genesi, che si rivela come una perla preziosa: quella di Hagar e del suo incontro col «Dio della visione».
Capitolo 16
Del primo dei due racconti che vedono quale protagonista Hagar, la domestica egizia a servizio presso Sara, moglie di Abramo, vorrei affrontare l’ultima parte, quella in cui questa donna in fuga, smarrita e in preda allo sconcerto, viene incontrata da Dio. Il nostro racconto, difatti, inizia mostrandoci un Dio che si preoccupa e va in cerca: nel farlo, trova Hagar presso una fonte, segno di fecondità in un luogo, il deserto, che evoca solitudine e fa incombere, come unica ombra che esso è capace di offrire, quella funesta della morte.
La sorgente si trova sulla via che porta a Sur, in direzione dell’Egitto: viene spontaneo immaginare che Hagar, giovane donna incinta in fuga dall’ira della sua padrona, faccia rotta verso casa. Quando sul presente si addensano le nubi minacciose di un futuro di oppressione e insicurezze, ci volgiamo verso quel passato che sembra garantirci protezione e ad esso ci afferriamo, sino a rimanervi inchiodati. Ma Dio ha posato su Hagar il suo sguardo premuroso: il nostro testo vi allude attraverso un gioco di parole che la traduzione in lingua italiana del testo originale non riesce a rendere. La parola ebraica ‘ayin, con cui viene indicata la fonte presso cui il messaggero di Dio incontra Hagar, in lingua ebraica significa anche occhio. Dopo tanti sguardi «obliqui», carichi di gelosia, ecco presentarsi uno sguardo che richiama trasparenza di acque limpide alla cui fonte è possibile dissetarsi, sguardo ricco di sollecitudine e ricolmo di tenerezza, rivolto a chi fugge da un destino di ingiuste vessazioni ed espliciti ricatti. Il messaggero di Dio apre poi il dialogo chiedendo ad Hagar: «Da dove vieni e dove vai?». Domanda esistenziale per eccellenza. Hagar risponde di aver intrapreso il suo itinerario con la sola intenzione di allontanarsi il più possibile dal volto della sua padrona, della quale non specifica l’atteggiamento e non condanna espressamente l’agire. Verso dove sia diretta, però, Hagar non lo dice; forse non lo sa.Il suggerimento dato ad Hagar dal messaggero di Dio è piuttosto difficile da accettare. A ben guardare, però, consiste in un duplice invito: da un lato, quello di restare «sotto la mano» di Sara, la stessa che, con l’accondiscendenza di Abramo, aveva agito con violenza su di lei. Questa richiesta apparentemente irricevibile suona diversamente se accostata alla prima: «sii umile». Evidentemente, Hagar non lo è stata del tutto: forse un po’ di quella leggerezza con cui Sara aveva ritenuto che ella la guardasse era presente nei suoi occhi. «Ti invito ad avere nei suoi riguardi un atteggiamento meno altezzoso»: questo sembra dirle il messaggero. E a questa proposta Hagar, forse consapevole della sua spavalderia, non si sottrarrà. Prima di invertire la rotta dei propri passi accogliendo il consiglio venutole da quella voce, Hagar dichiara di averne compresa la provenienza (senza che il messaggero l’abbia in alcun momento esplicitata) dando un nome a Chi l’aveva fatta improvvisamente danzare nel suo cuore. Estremamente significativo è il fatto che qui Hagar conferisca un nome non al luogo degli avvenimenti che l’hanno coinvolta e trasformata, ma al Dio che le ha parlato: si tratta dell’unica occorrenza biblica in cui un essere umano fa dono a Dio di un nome, senza attendere che sia Lui a rivelarglielo. C’è di più: nel nome che Hagar sceglie c’è un riferimento a quella visione di Dio che, per antonomasia, nella sensibilità ebraica è preclusa all’essere umano.
Senza pretese assolutistiche e dimostrando di disporre di quell’umiltà a cui era stata sollecitata, Hagar lo chiama: «Dio della mia visione», ossia il Dio che a me si è mostrato in questo modo, ma che resta libero di mostrarsi diversamente nelle vite e negli sguardi delle altre e degli altri. Non, dunque, un modo di uniformare lo sguardo di Dio e su Dio, ma la sottolineatura di un’esperienza di trasformazione profondamente personale, che ha senso narrare ma non da imporre. Con la medesima umiltà, Hagar riconosce che quel Dio che lei ha visto è, anzitutto, il Dio che per primo l’ha vista, chinando su di lei, premuroso, lo sguardo e il volto. In quella fonte che sin dal nome evocava gli occhi, si è realizzata un’intesa di sguardi prima ancora che di parole: una muta complicità in cui Dio ed Hagar si sono incontrati, parlati e compresi. E se lo sguardo di Dio è la manifestazione d’amore che porta Hagar a «fare il punto» sulla propria esistenza, sarà l’ascolto che quello stesso Dio le riserverà a condurne la vita verso itinerari umanamente sorprendenti.
Capitolo 21
Dopo il racconto di Genesi 16 ritroviamo Hagar al capitolo 21: ritornata dalla padrona Sara come indicatole dal messaggero di Dio, Hagar ha partorito il figlio Ismaele, e nel frattempo anche Sara è stata visitata dal Signore e ha dato alla luce Isacco. La complicità fra Ismaele e Isacco, che da fratelli scherzano insieme con l’innocenza di cui i bambini sono capaci, ridesta in Sara rivendicazioni di status, ossia la ferma volontà di difendere il proprio ruolo in famiglia e nella società: i due figli di Abramo non possono essere considerati alla pari, perché uno è figlio della padrona e l’altro della schiava; Ismaele e la
madre devono dunque essere cacciati. Se in Genesi 16 era stata Hagar a scegliere di allontanarsi dalla tribù di Abramo, questa volta la scelta è di altri, ma le conseguenze sono per lei simili, se non peggiori: Hagar si ritrova infatti nuovamente nel deserto, con in più il peso dell’emarginazione e un giovane figlio da accudire. Le pagine bibliche ci presentano madre e figlio smarriti, senz’acqua, nella straziante attesa di una morte certa. Hagar «sedutasi di fronte [al fanciullo], alzò la voce e pianse». Ed ecco l’inaspettato: «Dio udì la voce del fanciullo». Dio, che con il Suo sguardo di amore e tenerezza ha visto Hagar nel deserto la prima volta e l’ha ricondotta a una possibilità di vita e di fecondità (il ritorno presso Sara e Abramo, infatti, benché difficile per lei da accettare, le ha permesso di crescere il figlio in un contesto sicuro), ora si fa nuovamente vicino a queste Sue creature ascoltandone il pianto.
L’ascolto amorevole da parte di Dio è foriero di speranza e di rinascita (lo stesso nome «Ismaele», suggerito da Dio per il figlio allora atteso, significa «Dio ascolta»). Il Dio vicino e in ascolto invita Hagar a rialzarsi, a prendere per mano il figlio e «Dio le aprì gli occhi ed ella vide un pozzo d'acqua»: la sorgente è nuovamente per Hagar un luogo d’incontro col “di più” d’amore e di possibilità che lo sguardo di Dio può donare. Una creatura in cammino, in ricerca, che sperimenta il limite; un Dio che vede, ascolta, chiama, si relaziona: da questi percorsi che s’incontrano germogliano nuove strade, si schiudono nuovi orizzonti di vita e le vicende di disperazione umana si aprono alla speranza.
Conclusione
Questa è la parabola esistenziale di Hagar, ma è esperienza anche di tutti e tutte coloro che incontriamo leggendo la sua vicenda: di Abramo, a cui è donata la tanto desiderata discendenza (anzi, più d’una!); di Sara, che vive la gioia della maternità quando non pare più umanamente possibile; di Isacco, destinatario delle promesse divine; di Ismaele, che diverrà capostipite di «una grande nazione» e tesserà così nuove relazioni familiari; di tutte queste vite, che avranno occasione di riconciliarsi proprio presso la sorgente in cui Dio e Hagar si sono incontrati (Genesi, capitolo 25, vv.1-18). Una presenza amorevole e misericordiosa, quella di Dio, che si rivela essere per tutti/e e per ciascuno/a, nella creativa molteplicità dei differenti percorsi di vita.