Il tramezzino di celluloide

Ingredienti per spuntini di felicità tratti dalla filmografia recente

di Federica Ferri
Vicepresidente e segretaria del Circolo Cinematografico Cappuccini di Imola

Una lente per vedere meglio il lato buono delle piccole cose, una dose di speranza (anche se questa è di faticoso reperimento) e di fiducia, uno specchio in cui potersi guardare, nonostante tutto, sereni alla mattina. Questi sono alcuni degli ingredienti che, come ci suggeriscono alcuni film, possono essere utilizzati nelle giuste proporzioni per aprire uno spiraglio tra gli affanni quotidiani.

Image 101Questione di punti di vista

In Il Palloncino bianco di Jafar Panahi (1995) i protagonisti sono due bambini, qualche strada, un pesciolino rosso e un tombino.

Razieh ha il viso corrucciato e fiero. Ha un foulard bianco annodato al collo, camicetta e calze bianche, gonna a pallini rossi. In Iran il 21 marzo si festeggia il capodanno e in quell’occasione, come augurio per il futuro, i bambini espongono un pesciolino rosso in una boccia di vetro. Razieh ne vuole assolutamente uno, nonostante la vasca del giardino ne sia già piena. Riesce a convincere la mamma a darle una banconota da 500 tuman e si tuffa nelle strade di Teheran brulicanti di gente. Dapprima un gruppo di incantatori di serpenti le sottrae la banconota per gioco, poi è il vento a giocarle un brutto scherzo. La banconota le sfugge di mano e una folata la spinge sotto la grata di un tombino.

Nel tentativo di recuperarla coinvolge dapprima il fratello di poco più grande, giunto sul posto, poi diverse persone. Ma queste dopo qualche attenzione suscitata dall’insistenza della bambina, non si impegnano più di tanto e ben presto si allontanano, prese dalle proprie faccende. I bambini iniziano a scoraggiarsi. L’impresa sembra impossibile finché un ragazzo afgano, venditore di palloncini, con pazienza e ingegno riesce a recuperare la banconota. Razieh raggiante può finalmente correre dal venditore di pesci che le porge una boccia con un pesciolino. «Ma è piccolo!» si lamenta la bimba, «Se lo guardi da sotto è grande!» ribatte l’uomo.

Fuori dalla gabbia dorata

Nel Truman Show di Peter Weir (1998) la vita di Truman Burbank nella cittadina di Seahaven scorre all’apparenza tranquilla e soddisfacente: lui lavora come agente assicurativo, ha una moglie infermiera in ospedale, e i vicini di casa tutte le mattine lo salutano con un cordiale «Buon giorno!». Truman a dir la verità avverte un po’ il peso di questa routine, e progetta di fare viaggi, visitare altri paesi, fare nuove esperienze. Ma al momento di concretizzare queste idee, qualcosa sempre lo rimanda indietro: l’impiegata dell’agenzia gli dice che i posti sono esauriti, e anche in macchina il traffico impedisce di uscire di città. Truman si scontra con ostacoli che col passare del tempo cominciano ad apparirgli strani e inspiegabili. Quando, finalmente deciso ad andare a fondo di questi fenomeni, si confida con l’amico Marlon, quest’ultimo commette l’errore che rivela l’inganno. Seahaven non è mai esistita: è solo un gigantesco studio televisivo di Los Angeles, monitorato 24 ore su 24 da oltre 5000 telecamere invisibili, dove Truman, del tutto ignaro, vive dalla nascita, dove tutto è azionato meccanicamente e le persone (moglie, parenti, amici, colleghi di lavoro) sono attori appositamente ingaggiati. Dalla nascita la vita di Truman viene trasmessa come un’interrotta telenovela ed è il più grande successo della storia della televisione.

Truman non si lascia travolgere dalla disperazione e si ribella; anche se si rende conto di non avere più certezze cerca di uscire dal mondo artificiale in cui trova. Christof, il regista di questo perfido gioco, nell’intensa scena finale - nel tentativo di non perdere il protagonista dello show - decide di parlargli direttamente, per convincerlo a restare: perché lasciare un mondo perfetto per inoltrarsi nell’ignoto? Perché lasciare ogni sicurezza, che cosa ci sarà mai là fuori di meglio? Truman però, desideroso di essere artefice del proprio destino, fa uno sberleffo a Christof e apre la porta (finalmente trovata) sul fondo della scenografia: fuori è buio ma senza esitazione varca la soglia.

La pace dei miei sensi

Michel non ha più un lavoro ma ha ancora una moglie alla quale lo legano trent’anni d’amore, due figli e tre piccoli nipoti di cui occuparsi. La sua vita serena, trascorsa all’insegna dell’amicizia e della solidarietà, viene bruscamente interrotta da una rapina, in cui resta coinvolto e sconvolto insieme alla compagna, alla sorella e al cognato. In Le nevi del Kilimangiaro di Robert Guédiguian (2011) - ambientato in Francia ai giorni nostri - Michel è deciso ad ottenere giustizia e scopre accidentalmente che uno dei rapinatori è Christophe, un giovane operaio licenziato insieme a lui. Amareggiato ma persuaso all’azione, lo denuncia alla polizia che lo arresta. Il ragazzo rischia adesso una pena di quindici anni e una detenzione lontana dai fratellini di cui da anni si occupava da solo (il colpo è stato organizzato proprio per mantenere i bambini dopo che la madre li ha abbandonati).

Dopo un duro scontro verbale col suo rapitore in carcere, Michel lo colpisce con uno schiaffo. Il gesto involontario lo getta in una profonda crisi. Inizia ad interrogarsi sulla sua vita, sul valore del perdono e sul futuro dei due bambini soli e in attesa dei servizi sociali. Michel inizia ad interessarsi ai due bambini e così fa la moglie a sua insaputa: Marie Claire va a trovare i bambini, lava e stira i loro vestiti, prepara la cena. Un giorno, in riva al mare, Michel propone alla moglie di occuparsi dei due fratellini fino alla scarcerazione di Christope. Marie Claire, sorridendo, gli indica due bambini che corrono verso di lei. «Sono loro - dice - le valigie sono già in macchina!».

I figli di Michel però reagiscono duramente alla scelta dei genitori, preoccupati del giudizio della gente, dei soldi spesi per i bambini che nessuno rimborserà, del tempo sottratto alle loro famiglie. Ciò nonostante Michel e Marie Claire proseguono sereni per la loro strada, certi di avere fatto la scelta giusta.