«Siamo tutti sulla stessa barca»: monito che papa Francesco ha rilanciato più volte. Parlar di barche in un carcere evoca antiche galere dove gli antenati erano incatenati alla medesima imbarcazione, condannati al medesimo affondamento (se non ti chiamavi Ben Hur). Tutti siamo sulla stessa barca anche senza esservi incatenati. E sulla stessa barca non ci si possono permettere conflitti o litigi, piuttosto si deve remare sincronizzati, per non stremare stupidamente gli sforzi. La pace è intelligenza. Aggiungere catene e palle al piede non fa che appesantire la zavorra. Un rischio per tutti.
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Una pace (st)remata
Sulla stessa barca
DIETRO LE SBARRE
Lasciatemi in pace
Come si può vivere sperando nella pace altrui, quando si vive in uno stato di guerra costante?
Ogni giorno un detenuto si sveglia e sa che dovrà combattere la sua battaglia giornaliera. Dovrà lottare per non perdere i suoi rapporti fuori, dovrà lottare per non vedere i suoi diritti calpestati. Ma alla fine dovrà soccombere, altrimenti, semmai dovesse perdere la testa, avrà dimostrato di essere un detenuto che ha meritato appieno la sua condanna; avrà dimostrato di non meritare di uscire tramite i “benefici” prima del suo fine pena dalla sezione di un carcere.
Non si può vivere in pace quando un detenuto si suicida in carcere e, per tutta risposta, le istituzioni e la polizia penitenziaria chiedono più agenti e più strutture da costruire, senza citare minimamente la riabilitazione del detenuto che può avvenire, come da ordinamento penitenziario, anche con pene alternative che allevierebbero l’attuale drammatica situazione di sovraffollamento nelle carceri italiane.
Non si può vivere in pace lontano dalla propria famiglia e dalle persone che si amano. Costretti a convivere con persone che non abbiamo scelto e che stanno combattendo la propria battaglia personale, rischiando così di trasformare la convivenza forzata in una possibile guerriglia di posizioni e atteggiamenti che non comunicano tra di loro.
Ogni giorno diventa quasi un’attesa la notizia di proteste o rivolte da parte di noi detenuti, per poi far sì che la modalità «Sbatti il mostro in prima pagina», citando il famoso film con protagonista Gian Maria Volontè, si riversi sui reclusi con la formula del bastone, ovvero sempre più misure repressive.
L’unica pace per noi detenuti è quindi quella della rassegnazione, quella di evitare il più possibile di invischiarsi in qualsiasi tipo di discussione, sia con altri detenuti sia con agenti della penitenziaria: insomma, «fatemi fare la galera in santa pace», come si dice da queste parti.
Alex Frongia
Dalla Dozza verso la nostra vera pace
Pace, in latino pax, che deriva a sua volta dalla radice indoeuropea pak-, pag-, ovvero fissare, legare, pattuire, unire, saldare; pax ossia l’esatto opposto di bellum, guerra. Dalla Dozza si possono avere varie percezioni della pace: una, appunto, può essere legata al suo significato latino ed al suo opposto, pace e guerra, pax e bellum. In carcere ciò che si percepisce al momento rispetto a tutto quello che accade al di fuori di queste quattro mura sicuramente non ci rassicura. L’allarmismo mondiale è lampante per l’acuirsi dei due conflitti regionali che sono sull’orlo dell’allargamento totale e che potrebbero scatenare una nuova guerra mondiale: la pace è sempre più lontana.
Quindi, guardando oltre, il termine pace assume quasi un significato vuoto, inascoltato, e che i potenti preposti a decidere le sorti del mondo non hanno minimamente voglia di mettere in atto arrivando a smussare le posizioni inamovibili: ma quale pace, o pacificazione sociale, in un mondo di guerra?Se procediamo a cerchi concentrici, avvicinandoci al punto focale, possiamo cercare di analizzare il termine pace immerso nelle situazioni che quotidianamente viviamo qui in carcere. E correlarlo quindi alle nostre relazioni, alla nostra quotidianità, al nostro vissuto, sia con gli altri detenuti che con gli agenti di custodia. Ovviamente quello che noi auspichiamo ogni giorno è il fatto di vivere serenamente le nostre giornate e cercare di instaurare rapporti il più possibile pacifici, sinceri ed al contempo maturi e responsabili con chi è costretto a condividere insieme a noi, malauguratamente, questa nostra estrema vita di sofferenza e privazioni, cercando di smussare ogni e qualsiasi incomprensione che potrebbe creare. Non sempre però è così; gli screzi, i dissidi, i litigi sono dietro l’angolo. Ma è qui che il significato vero e concreto di pace deve farsi strada tra noi detenuti: evitare il più possibile di destabilizzarci tra di noi con atteggiamenti futili e fastidiosi, anche irritanti oserei aggiungere, è la vera sfida alla quale siamo di fronte ogni giorno.
Ci vuole voglia, impegno, forza di volontà, ma ciò può venire meno in un attimo: una relazione che sta per interrompersi, il trasferimento in un’altra sezione, il trasferimento non voluto in un altro carcere, una chiamata a cui i tuoi familiari non rispondono, un colloquio andato male, un compagno di sezione che travalica il confine tra lo scherzo e lo scherno, arroganza o modi di fare da capetti. Serve sforzarsi per far sì che questi atteggiamenti non influiscano, che non accadano, che inizi ad esserci una vera e propria integrazione tra i vari abitanti delle sezioni, arredate dalla multiculturalità, dalle varie fedi religiose o calcistiche, dalle posizioni ideologiche, dalle mentalità più disparate. Serve fare tesoro delle diversità e delle differenze e sfruttarle con energie positive, piuttosto che arroccarsi sulle proprie posizioni ed evitare il confronto, il dialogo e l’apertura all’altro, tutti elementi imprescindibili e fondamentali per la realizzazione della pace tra noi e chi ci circonda. In questo i detenuti hanno sicuramente più possibilità di riuscita rispetto a dove i potenti stanno evidentemente fallendo: proviamoci!
Ed infine, arriviamo al punto focale di questi cerchi che si vanno a formare come quando un sasso viene lanciato nell’acqua: noi stessi, e ciò che ci ha portato ad essere in carcere, e quindi la nostra condanna, e a come possiamo cercare di raggiungere la nostra pace interiore. Al momento vi sono soluzioni giudiziarie come la giustizia riparativa, il risarcimento all’offeso, piuttosto che i lavori socialmente utili. E poi ci sono le soluzioni soggettive, quelle esclusivamente nostre, quelle che nessun magistrato di sorveglianza, ispettore o direttore può imporci, quelle che fanno sì che la tendenza al raggiungimento della nostra rieducazione possa realizzarsi. Parlo di rieducazione reale, non quella spesso vuota fatta di percorsi che i più intraprendono solo ed esclusivamente per cercare di uscire di galera il prima possibile: quella che permette di guardarci dentro, di esplorarci, quella che fa sì che il ravvedimento avvenga davvero dentro di noi e ci porti a non commettere più il reato, non per la paura di tornare dentro, ma perché siamo arrivati a cambiare la nostra percezione, la nostra mentalità, il nostro modo di essere. Il tempo qui lo abbiamo sia per ri-flettere che per ri-generarci, per ri-vivere, per ri-crearci: sfruttiamolo, per ri-appacificarci con noi stessi, per la nostra vera pace.
Walter