La teologia della guerra (in)giusta
Come la riflessione sulla guerra si è evoluta nella storia cristiana
di Enrico Galavotti
docente di Storia del cristianesimo e Storia della teologia presso l’Università di Chieti-Pescara
Dall’amore per i nemici alla guerra giusta
La riflessione sulla guerra e la pace ha impegnato i cristiani sin dalle origini: particolarmente dal momento in cui il cristianesimo ha trovato un proprio spazio all’interno dell’Impero romano.
Perché fu precisamente questa stabilizzazione sociale a determinare anche un cambiamento nel pensiero cristiano. L’osservanza originaria del comandamento che imponeva di non uccidere e dell’imperativo evangelico dell’amore verso i nemici furono diluiti e accantonati in nome della ragion di Stato; i cristiani che si erano rifiutati di combattere entrarono a far parte dell’esercito; labari e armi venivano egualmente benedetti da coloro che si dicevano discepoli di Gesù: anzi, la croce stessa perse il suo significato originario, diventando un simbolo identitario alla stregua degli altri da elevare durante battaglie e guerre contro i nemici.
Tanto i Padri della Chiesa quanto i grandi teologi iniziarono a razionalizzare l’idea di guerra e la possibilità per i cristiani di esservi coinvolti. Perché la guerra, si iniziò a sostenere, era un elemento spiacevole ma inevitabile: anzi poteva essere legittima – «giusta» – se serviva a ripristinare un ordine sociale e statuale violato da qualcuno. Questa idea si mantenne inalterata sino al XX secolo, quando lo scoppio della Grande guerra indusse interrogativi nuovi, o che perlomeno non si riaffacciavano da secoli. Papa Benedetto XV si trovò di fronte ad un conflitto inedito per dimensioni e per il ricorso ad armi (gas, carri armati, bombardamenti aerei) mai impiegati nelle guerre precedenti. I suoi tentativi di interrompere l’«inutile strage» furono contestati in primo luogo dai cattolici, ormai totalmente soggiogati dalle logiche del patriottismo e dal desiderio di prevalere sul nemico. Ma per questo Papa restava comunque intoccabile l’idea che la guerra giusta non era un’astrazione, ma una realtà possibile e legittima, ancorché tragica.
Una nuova riflessione
Anche Pio XII levò più volte la voce per perorare la fine della guerra scoppiata nel 1939. E in modo del tutto simile ai predecessori si mantenne nel solco di una tradizione del magistero che ammetteva la possibilità di un conflitto. La Seconda guerra mondiale fu nuovamente l’occasione per l’impiego di armi capaci di una devastazione mai vista, culminata nel bombardamento di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. Questi eventi, che avrebbero assunto in seguito un valore periodizzante a livello universale, non incisero, almeno nell’immediato, sulla riflessione del magistero intorno al tema della guerra. Certamente Pio XII nei suoi interventi avrebbe dedicato uno spazio importante all’analisi degli effetti delle armi nucleari; soprattutto si sarebbe chiesto se fosse legittimo il loro impiego nel caso di un nuovo conflitto. Il Papa aveva deplorato con forza questa eventualità, ma allo stesso tempo aveva concluso che l’esistenza di queste nuove armi non alterava la posizione del magistero romano rispetto al tema della guerra. Pio XII, completamente avvolto dalle logiche della guerra fredda, mostrava piuttosto freddezza verso chi si faceva sostenitore della pace ad ogni costo e affermava in modo netto che occorreva essere solidali verso chi soffriva a causa di una guerra di aggressione, com’era ad esempio avvenuto in Ungheria nel 1956.
Ma certamente non sfuggiva a nessuno che la nuova guerra dei trent’anni che si era combattuta tra il 1914 e il 1945 imponeva necessariamente uno scarto nella riflessione del magistero sul tema della guerra e della pace. Papa Pacelli aveva aggiunto nelle sue dotte dissertazioni l’aggettivo «totale» per parlare delle guerre moderne. Dal canto suo il cardinale Ottaviani, autore di un celeberrimo manuale di diritto pubblico ecclesiastico, aveva lasciato intendere che il più classico concetto di proporzionalità richiamato dalla teologia della guerra giusta era effettivamente difficile da riproporre tale e quale all’indomani dell’impiego delle armi atomiche: ma anche lui aveva scelto di non andare oltre questa constatazione.
La profezia di Pacem in terris
Il breve pontificato di Giovanni XXIII si sviluppò in un contesto non dissimile da quello in cui si era svolta la seconda parte di quello di Pio XII. Nell’ottobre del 1962 la decisione dell’Unione Sovietica di installare missili balistici intercontinentali a Cuba segnò il momento di maggior crisi internazionale dalla fine della Seconda guerra mondiale e il Papa decise di intervenire con un radiomessaggio congegnato in modo da evitare l’impressione che la Santa Sede si schierasse con una delle parti coinvolte nel conflitto. Da questo impulso nacque l’idea di redigere una enciclica che toccasse proprio il tema della pace nell’età contemporanea: non per ripetere cose già dette (altrimenti papa Giovanni per primo se ne sarebbe astenuto), ma precisamente per impegnarsi in una attenta decifrazione dei «segni dei tempi».
Rispetto al tema della guerra l’enciclica Pacem in terris compiva effettivamente una svolta fondamentale. In primo luogo si prendevano le distanze dalla dottrina della deterrenza come male minore, perché questa, in ogni caso, non preservava l’umanità dal rischio terribile «che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico». Soprattutto l’enciclica accantonava l’idea che i cristiani potessero considerare la guerra, come s’era fatto per secoli anche grazie ad una legittimazione dottrinale sistematica, come uno strumento di risoluzione dei contrasti tra Stati. Era «il pensiero delle distruzioni immani e dei dolori immensi» che le armi atomiche potevano provocare a spingere il Papa a sottolineare l’importanza del «negoziato», che diventava sempre di più una via obbligata. Giovanni XXIII aveva finalmente preso atto che le armi nucleari – come ancor prima le guerre «totali» che avevano colpito in misura sempre più importanti le popolazioni civili – avevano definitivamente reso obsolete le speculazioni teologiche sulla proporzionalità tra offesa e difesa: «per cui riesce quasi impossibile», concludeva il Papa, «pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».
Dal Concilio a papa Francesco
I padri del concilio Vaticano II si trovarono subito di fronte alla questione di come recepire questo atto di magistero nuovo in tutti i sensi. Molti vescovi condividevano il giudizio maturato da Giovanni XXIII rispetto alla fine dell’idea della guerra «giusta», concludendo che il Vaticano II doveva ufficializzarlo. Ma altri, che venivano da paesi in guerra o schierati sulla linea di confine segnata dalla Guerra fredda, erano propensi a ribadire la tradizione precedente: in fondo, dirà un vescovo statunitense, non era corretto affermare che le armi atomiche producevano effetti incalcolabili come aveva sostenuto qualcuno, dal momento che le cosiddette armi nucleari «tattiche» avevano comunque una dirompenza circoscritta, «pari a 40 tonnellate di esplosivo».
Il concilio Vaticano II, imbrigliato nelle logiche della divisione dei blocchi, sceglierà di non dare una piena ricezione della Pacem in terris. Dell’enciclica di Giovanni XXIII la costituzione Gaudium et spes condivideva la contestazione della deterrenza («non è una via sicura per conservare saldamente la pace, né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile»), ma non giungeva alla medesima rimozione dell’idea della guerra quale strumento per riparare una situazione di ingiustizia: «La guerra», stabilirà la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, «non è purtroppo estirpata dalla umana condizione. E fintantoché esisterà il pericolo della guerra […] non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». E il Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 1992 ribadì punto per punto «gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della “guerra giusta”».
Papa Francesco, in modo simile a quanto aveva fatto papa Giovanni nel 1963, ha determinato una svolta decisiva nel magistero sulla guerra e la pace: ma lo ha fatto senza produrre una nuova enciclica sulla pace, lasciando intendere che su questi temi Giovanni XXIII aveva già scritto parole definitive, sebbene lungamente disattese. Così, quella legittimazione che pure era stata concessa dal concilio Vaticano II all’esistenza degli arsenali nucleari è stata finalmente revocata da papa Bergoglio. Il semplice possesso delle armi è, nel giudizio del Papa, immorale: esattamente come aveva detto il cardinale Lercaro in un discorso del 1965 su cui era stata fatta calare una cortina fumogena. «Dunque», ha concluso Francesco, «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!».