Come in terra, così nel cuore

La ricerca della pace nella Palestina tormentata dalla guerra

 di Ignazio De Francesco
monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, studioso di Letteratura cristiana antica e di fonti coraniche

Nella vita monastica il coro è il luogo dove si sperimenta al più alto grado la pace ad intra, in particolare nell’ultimo atto liturgico della giornata, chiamato in modo significativo Compieta.

La giornata è “compiuta”, passata per sempre, con le sue gioie e le sue pene. Come in tutte le famiglie ci possono essere state tra noi tensioni, incomprensioni e persino bisticci, per non parlare delle bufere interiori dei pensieri e dei sentimenti. Ora però la campanella convoca tutti, vincenti e perdenti, per il canto del Nunc dimittis: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola». La preghiera comunitaria della sera come esperienza di pace ad intra, che non può mai essere soltanto individuale, ma inclusiva, per essere vera. Quella sera però l’invocazione di pace della Compieta è improvvisamente trafitta da sordi boati, ululati di morte lontani ma non per questo meno paurosi, che ci spingono a uscire sul sagrato della chiesa, per interrogare il buio. Che cosa sta succedendo?

 Una Parola problematica

Siamo ad Ain Arik, un piccolo paese della Cisgiordania non lontano da Ramallah, in direzione di Tel Aviv. La comunità alla quale appartengo, la Piccola Famiglia dell’Annunziata, vive nella parrocchia latina abbarbicata su un fianco del wadi. Poco sotto svetta la parrocchia ortodossa e a un tiro di sasso la moschea del villaggio. Duemilacinquecento anime, cinquecento delle quali di fede cristiana. Una vita semplice e di grande solidarietà con la popolazione palestinese, alla quale si aggiungono i profondi legami di amicizia con tanti ebrei israeliani, che incontriamo oltre l’orribile Muro di separazione. La sera di cui parlo è il 7 ottobre 2023, inizio della Grande Strage, che dal massacro di 1200 israeliani si è moltiplicata per quaranta volte e più, a danno della parte palestinese, e non se ne vede la fine. Come coltivare la pace ad intra quando la pace ad extra è in briciole?
Il rebus è complicato da un particolare non secondario della nostra vita orante, così come l’ha pensata il nostro fondatore, Giuseppe Dossetti: la Bibbia. Tutte le comunità religiose ovviamente hanno la Bibbia in mano, ma la Piccola Famiglia dell’Annunziata in un “modo esagerato”. In lettura continua, giorno dopo giorno, partendo dai centocinquanta Salmi, ripetuti a scadenza settimanale. Poi tutto il resto, riga per riga, senza omettere nulla, dal primo capitolo di Genesi all’ultimo dell’Apocalisse. Ad Ain Arik, così come nell’altra sede di Ma’in (Giordania), la lettura è in arabo, la lingua del Corano. È così che nella chiesetta sul fianco del wadi palestinese recitiamo e meditiamo anche i lunghi passaggi che raccontano della conquista ebraica della Palestina, della Terra promessa al Popolo eletto, delle bibliche azioni di sterminio degli abitanti autoctoni esclusi dall’Elezione. Come resistere all’urto tra questi contenuti della nostra preghiera, che dovrebbero alimentare quotidianamente la pace ad intra, e lo tsunami di morte e distruzione che si dipana quotidianamente ad extra sotto i nostri occhi?

 Quale Terra promessa?

La tradizione cristiana offre una chiave alla lacerazione interiore/esteriore che sperimentiamo: passare dalla lettera del testo sacro al suo significato profondo, spirituale e misterico. Le guerre d’Israele come metafora della lotta interiore contro le passioni, riflesso individuale dell’azione cosmica delle potenze negative. Questa intelligenza spirituale della storia è illuminata da Gesù, che nella fede professiamo vero Dio e vero uomo, salvatore del mondo attraverso la sua morte di croce e risurrezione. Si aggiunga che ai suoi primi compagni, ebrei come lui, Gesù ha indicato il mondo intero come orizzonte del vangelo di pace, ordinando di “mettere la spada nel fodero”, di superare una volta per tutte gli stretti confini della Palestina e di mostrare nella beatitudine oltre la morte la vera Terra promessa alla quale tutti sono chiamati. Questo, in estrema sintesi, è ciò che ha nutrito la speranza cristiana e ha fondato la nostra pace ad intra per duemila anni. Ma le alture alle spalle del nostro conventino palestinese brulicano di insediamenti di coloni israeliani, dove la lettura della Bibbia non è meno fervida della nostra, ma la sua comprensione va in senso contrario: la Terra promessa sono quei circa 28 mila chilometri incuneati tra Libano, Egitto, Giordania e Mediterraneo; gli ebrei sono i soli eredi legittimi di quella terra, per disposizione divina; tutti gli altri non ne hanno titolo, sono intrusi e residenti illegittimi, costretti alla fuga o allo sterminio, proprio come i cananei di epoca biblica. Quale delle due interpretazioni è quella vera?
Il quesito è assolutamente esistenziale, una questione di vita e di morte per noi monaci e monache che viviamo in mezzo a questi due popoli. La guerra ad extra ci stritola l’anima, non solo per gli orrori di cui siamo testimoni diretti, ma anche perché i nodi profondi di quella guerra sono depositati nella Bibbia, che dovrebbe essere il libro della nostra pace ad intra.

 

A ciascuno il suo diritto

Non si può ovviamente minimizzare il peso esercitato dalla modernità sul progetto sionista, in particolare le ideologie nazionaliste che hanno infiammato – meglio avvelenato – i popoli d’Europa nell’Ottocento. Il sionismo è parzialmente figlio di quelle ideologie, alle quali si era aggiunto, in modo perverso ma del tutto coerente, il demone dell’antisemitismo, che aveva ridotto i cittadini ebrei a intrusi e residenti illegittimi, costringendoli alla fuga o allo sterminio. Ma ricondurre tutto al fallimento del progetto di assimilazione degli ebrei europei elude il problema dell’anelito ebraico al Ritorno che attraversa i secoli, come mostra in modo lapidario il Salmo 137: «Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion … Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se faccio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia». Scritto circa 2500 anni fa, quel testo si chiude con una delle espressioni più violente dell’intera Bibbia: «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà quanto ci hai fatto. Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra». Gli antichi esegeti cristiani hanno proposto di leggere spiritualmente questo passo: bisogna sopprimere le cattive passioni quando sono piccoline e ancora deboli, percuotendole contro la Roccia, che è Cristo. Ma per i coloni israeliani alle nostre spalle, che pregano oggi quel salmo con tanta devozione, non è forse la lettera del testo a imporsi, a indicare che cosa fare oggi?
Il travaglio sperimentato in questi mesi terribili in Terra Santa trova uno spiraglio nel pensiero che, nella città degli uomini e delle donne, solo la giustizia sia la via maestra della pace, interiore ed esteriore. Giustizia significa dare a ciascuno il suo, cioè riconoscere a ciascuna parte il suo diritto. Nella comunità dei diversi la giustizia si esercita attraverso il diritto, quello che nasce dall’accordo sui principi fondamentali della vita comune. È il caso della nostra bella Costituzione, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e degli altri pronunciamenti supremi della Comunità internazionale, che non pretendono ispirazione divina, ma che davvero fondano la pace secondo giustizia, che per definizione non può lasciare nessuno indietro. Per quanto riguarda la Terra Santa, abitata oggi da 15 milioni di persone equamente ripartite tra ebrei israeliani e arabi palestinesi, la “parola chiave” rimane allora quella scolpita il 29 novembre 1947 nella risoluzione 181 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: «Indipendent Arab and Jewish States and the Special International Regime for the City of Jerusalem shall come into existence in Palestine». Mettiamo in pratica questa giustizia, così a lungo contraddetta, e ne verrà pace a tutti, pace sul terreno e pace nei cuori.

 Ad Ain Arik, in Cisgiordania, l’autore ha scritto “Giuseppe e i suoi fratelli”, appena andato in scena al Festival Francescano, nell’adattamento di Alessandro Berti, e pubblicato in Vivere senza la chiave. Dialoghi tra carcere e città (Zikkaron, 2024)