Beati i costruttori di pace

Cercare pace nei conflitti: insieme si può

 di Pier Paolo Balladelli
medico

 «Il tuo corpo e quello dei tuoi galleggeranno sul fiume Sava». I due capi delegazione, di quella serba e della croata, si fissarono con odio.

Due psichiatri erano stati scelti dalle rispettive amministrazioni per discutere ed accordarsi su un piano di pace che aveva l’obbiettivo di consentire un’integrazione pacifica dei sistemi sanitari nella regione di Vukovar, città con etnie miste, fino a quel momento in mano serba ed ora parte della nascente Repubblica di Croazia. Correva l’anno del signore 1995 e ci trovavamo in mezzo alla neve, all’interno di un bunker russo, adagiato nel confine ovest della Slavonia Orientale. Freddo furioso fuori, mentre dentro una nebbia compatta, dovuta al fumo delle sigarette di una quindicina di professionisti della salute, tutti fumatori, stipati in una sala quadrata di 5 metri per lato.

 La pace attraverso la salute

“Salute come Ponte per la Pace”, la chiamavamo nell’OMS, di cui ero a capo in Croazia, la strategia che ho coordinato per due anni in quella regione del mondo. Quando mi avevano incaricato di “mettere pace” attraverso la salute, mi avevano sottolineato che la scelta dipendeva dal fatto che ero italiano, e quindi amato (o sopportato?) dai due popoli, e per il mio passato di medico degli indigeni in Sudamerica. Nei miei quattro anni di vita immersa nelle comunità indigene dell’Ecuador avevo dimostrato «grandi capacità e competenze inter-culturali». Avevo vissuto e cooperato con sciamani, curanderos (agenti della salute indigeni che curano attraverso piante, alimenti, montagne e riti) e parteras (levatrici indigene) per migliorare la salute della gente di quell’altipiano andino. Se ero stato capace di formalizzare accordi tra medici occidentali e curatori tradizionali per rendere complementari i due saperi, l’OMS reputava che avessi le carte in regola per ripetere il miracolo usando la salute per la pace anche in Croazia.
Nel bunker erano presenti ogni mese una ventina di persone, trasferite per mezzo di due autobus dalle rispettive aree di provenienza, Osijek in terra croata e Vukovar nell’area contesa. Oltre ai componenti delle due delegazioni, il sottoscritto, due militari russi, due interpreti, uno croato che proveniva da Zagabria ed uno serbo, che avevo appena incaricato dopo essermi reso conto che le traduzioni del mio interprete croato avevano varie volte travisato i messaggi proferiti dalla delegazione serba. Fissai il capo della delegazione croata che aveva appena minacciato di morte il suo collega serbo. Il suo omologo serbo si alzò con fare nervoso. I serbi a Vukovar avevano commesso una carneficina solo poche settimane prima, uccidendo con un colpo alla testa un centinaio di pazienti croati, internati nell’ospedale di quella città. Mi pervase una sensazione di impotenza.

Come era stato possibile che avessi accettato, alla conclusione della guerra dei Balcani, pochi mesi prima della fine della guerra in Bosnia Erzegovina (1995. Accordo di Dayton), quell’incarico di mediatore di pace e di responsabile del settore salute nell’Amministrazione Transitoria ONU della Slavonia Orientale? Poi mi chiedevo se davvero l’Organizzazione Mondiale della Salute era convinta che io sarei riuscito a produrre una negoziazione sostenibile tra due popolazioni in guerra tra di loro per anni, durante i quali avevano commesso varie atrocità l’uno nei confronti dell’altro. Ma forse, pensai, non era quello il momento per tentennamenti, dovevo “imporre” una visione positiva ad entrambe le fazioni per evitare una rottura insanabile dei lavori. «Pace, pace, pace», gridai, «Siamo colleghi, abbiamo fatto il giuramento di Ippocrate ed é in gioco la salute e il futuro di due popolazioni. Invece di minacciarci», suggerii, «vediamo come consentire alla nostra gente di partecipare a un processo che possa salvaguardare in futuro la loro esistenza fisica, che sia anche il presupposto per superare atrocità, odi e rancori e vivere di nuovo in pace». «Come vogliamo disegnare un sistema di salute neutrale e imparziale», continuai, «dove sia serbi che croati possano godere di uguale accesso a servizi di qualità? Ricordiamoci che molte famiglie di questo territorio sono di etnia mista serbo-croata e questa potrebbe essere la prova migliore che si può vivere insieme in pace». Il capo della delegazione serba si sedette scuotendo la testa e con fare contrariato, confabulando ad alta voce verso i membri della sua delegazione.

In tutto il mondo

A vari anni di distanza, mentre ero ad Amman con Mike, il mio collega virologo irlandese, ci guardammo. Lui sarebbe diventato di lì a poco vicedirettore dell’OMS a Ginevra per le emergenze e capo tecnico della risposta globale per la pandemia di Covid-19. Eravamo in un bar, di fronte a un bel boccale di birra. Stavamo discutendo come riuscire a creare un corridoio umanitario nel nord della Siria per inviare farmaci, vaccini e personale sanitario alle popolazioni imprigionate nei territori occupati nel nord della Siria da Al-Nushra, una organizzazione satellite di Al-Qaeda. Eravamo giunti a un intendimento sul da farsi. Dovevamo forzare quel gruppo, considerato terrorista, affinché ci consentisse di effettuare un’operazione medica di una settimana per prestare assistenza alle popolazioni da loro controllate, in opposizione al governo siriano. Erano appena passati vent’anni dall’esperienza in Croazia a Vukovar. Ero stato poi in Sud Sudan, in Rwanda, Burundi come coordinatore dell’emergenza dell’Ambasciata Italiana in Uganda. Con la famiglia avevamo poi affrontato quattro anni in Angola, lì a capo dell’OMS, i primi due anni dei quali in una sanguinosa guerra civile tra i due partiti angolani e dove bisognava ottenere vari “cessate il fuoco’ per assistere le popolazioni sotto il controllo dell’UNITA”.
Poco dopo, in Colombia di nuovo a capo dell’OMS, avevamo aperto corridoi umanitari attraverso il ‘cessate il fuoco’ in territori occupati dalle FARC. Poi, in Guatemala come OMS avevamo creato opportunità di pace e salute operando come tecnici di salute nei sentieri internazionali della droga. Si trattava di identificare opportunità di pace sostenibile tra popolazione e istituzioni democratiche in un paese con strutture di protezione dei diritti umani quasi assenti.
In Giordania ho raggiunto il grado più alto nella mia esperienza con la OMS, quello di Direttore Regionale per la Siria, con base ad Amman per coprire anche Iraq e Libano. Quando, subito dopo la Giordania, mi ritrovai di nuovo in Angola per rappresentare il Segretario Generale dell’ONU per cinque anni, l’obbiettivo principale era quello di appoggiare il paese nel suo percorso democratico ed in particolare produrre una dinamica di osservazioni internazionali per la gestione delle elezioni presidenziali. L’ambasciatrice americana, quello russo e il delegato dell’UE erano i miei interlocutori internazionali principali.
Da lì mi chiesero di spostarci in Venezuela per facilitare possibili accordi tra il presidente eletto, Maduro, ed il presidente riconosciuto da americani, tedeschi, inglesi, Guaidó. Si voleva “creare condizioni di pace” tra i contendenti per liberare fondi venezuelani congelati negli Stati Uniti ed in Europa con cui acquistare vaccini contro il Covid per la popolazione venezuelana. Nel nord della Turchia pochi anni prima dovevamo “piegare il braccio” a Al-Nushra per raggiungere con gli aiuti medici le popolazioni da essi controllate e lo facemmo informando queste ultime della nostra intenzione di aiutare loro stessi e le loro famiglie. Per evitare le proteste della popolazione, la dirigenza del gruppo illegale accettò di trattare un “cessate il fuoco”.

 Come costruire la pace?

Bene cari amici, so che in questo momento siete presi dal mio racconto ed interessati a capire come va a finire quest’articolo sulla pace. Adesso è venuto il momento di formulare una sintesi di quella che è stata la lezione appresa nei miei quarant’anni vissuti in giro per il mondo. Inizierò con una cattiva notizia dicendo che le esperienze in paesi in conflitto, o con grandi incongruenze sociali, mi hanno fatto capire che chi crea condizioni per la pace generalmente non sono i governanti di turno. Ma adesso viene la buona notizia: chi la costruisce sono invece individui e popolazioni, lavorando dal basso, dalle comunità. Infatti, sono proprio le popolazioni, spesso attraverso azioni concertate di resistenza passiva o attiva, oppure individui leader che comunicano attraverso la loro vita, e spesso a rischio della medesima, coloro che sono riusciti a muovere coscienze e che si sono fatti promotori di pace. Gente coraggiosa e controcorrente come Oscar Romero o Lorenzo Milani o Rigoberta Menchú o Nelson Mandela.
E allora qual è il ruolo delle entità internazionali? Direi che spesso nella storia hanno offerto importanti contributi per la pace attraverso uomini e gruppi che hanno nel terreno generato esperienze uniche verso la pace dei popoli. In un articolo del 2022 (Balladelli-Farante, Filantropía y Cooperación Internacional en Salud: una relación bajo escrutinio, Cuadernos Cris/Fiocruz 17/2022, pp 14-28) abbiamo dimostrato che neppure i grandi filantropi sono necessariamente mossi da autentici interessi umanitari, quando destinano grandi somme per i gruppi sfavoriti o discriminati.
Come si fa allora a costruire la pace? Una domanda difficile, ma non di impossibile risposta. Anzi la risposta è quanto mai semplice. È necessario per chi si impegna su questo fronte schierarsi con decisione a lato dei più deboli, perché loro sono la principale ragione per la pace. Un secondo elemento chiave, anche se estremamente difficile, è quello di cercare di operare in neutralità tra le parti. Un terzo e ultimo ingrediente che ho sperimentato è quello di rispettare due consegne imprescindibili che sono complementari e legate indissolubilmente tra di loro: la non-discriminazione e il rispetto.
La non-discriminazione direi che è proprio la base solida per la costruzione di una pace durevole, perché in una infinità di opportunità sono proprio le differenze la molla per tensioni, scontri e infine situazioni di conflitto. Ma le stesse differenze possono rappresentare un’occasione unica per la prevenzione o il superamento del conflitto. Infatti tutti, attraverso le loro peculiarità, differenze e competenze di vita, sono chiamati a contribuire a una pace reale, che possa durare.
E se volessimo fare un ulteriore passettino nel cammino del rispetto, potremmo aprirci all’uso della “gentilezza amorevole”. Si tratta di una specie di “assioma” che è alla base delle condizioni per la pace perché rispetto e gentilezza amorevole consentono di evitare le discriminazioni imposte e offrono la base per concordare tra le parti in conflitto obiettivi comuni. Nell’esperienza, infatti, a prevenire il conflitto e ad operare per proteggere la pace sono coloro che sono rispettosi delle differenze e vivono in ogni istante la apertura e il non-giudizio come la ricchezza più importante da difendere. In fondo siamo tutti già perfetti. Solo dobbiamo squarciare quel velo di nebbia che ci impedisce di vederci come siamo nella nostra intimità più profonda.