La prima volta che mi sedetti in un collegio dei docenti, 39 anni fa, era un ITIS. Il preside pensò bene di presentare tutti i nuovi arrivati. Quando mi chiamò, mi alzai e mi presentai: nome, cognome, materia. Stop. Poi mi risedetti. Il mio vicino di destra, un ingegnere che insegnava “Macchine a fluido”, mi disse: «Si vede che non sei un prete». Lo guardai sorpreso e gli risposi: «Sì, non sono un prete, da cosa lo vedi?». «Dal modo come ti muovi, dal tono di voce e dalla postura. Un prete sarebbe stato molto più rigido e “mellifluo” di te».

a cura di Gilberto Borghi

 Paradigma persona

Tra concilio, dietrofront e navigazione a vista 

 È un flash che mi è tornato in mente qualche tempo fa, quando sono andato ad intervistare un prete di una diocesi vicino alla mia.

Entrando in canonica ho visto una donna di spalle, capelli sciolti con due treccine rasta, un pantalone un po’ largo modello hip hop e una blusa in tema. «Mi scusi, sa dove posso trovare il parroco? – le ho chiesto». Si è voltata e tra due occhioni azzurri un po’ idealisti, ha brillato un piccolo piercing al naso. Masticando piano una cicca mi ha detto: «Dovrebbe essere in camera sua, aspetti che lo chiamo, chi devo dire?». Ha preso il cellulare e alla risposta ha detto: «Don, la cercano» spiegando poi il tutto. E ha proseguito con lui dicendo: «Senta, vado a fare la spesa, cosa devo prendere per la cena con i preti del vicariato?». Sono rimasto incredulo.

 L’operatore e il suo stile

Perché, da ciò che vedevo lì davanti a me, non avrei mai detto che quella fosse la perpetua. E forse anche il mio collega ingegnere avrebbe fatto fatica a riconoscerla. Due piccoli esempi tra tanti altri che si potrebbero raccontare: è successo qualcosa che attiene alla forma, allo stile dell’essere operatori pastorali. È innegabile che oggi sia molto più difficile di una volta identificare un prete, un catechista, una perpetua, dal suo modo di fare, di muoversi, di parlare, di vestirsi.
Quello stato di cose degli anni ‘80 è andato avanti fino a quando la stabilità dei ruoli sociali e la cultura che li reggeva non sono andate in frantumi. Prima della fine del millennio, le ideologie saltano, la società si frantuma, i ruoli sociali non sono più così stabili, pure quelli religiosi, e soprattutto la loro forma non è più così univoca. Possiamo discutere all’infinito se questo sia stato un bene o un male, ma è un fatto accaduto e non possiamo ignorarlo.
Così, lentamente, a cominciare dai cerchi ecclesiali più esterni, cioè quelli più prossimi al “mondo”, abbiamo cominciato a vedere dei mutamenti nello stile religioso, nel modo di essere credenti e nello stile pastorale. I laici impegnati non erano più sempre e solo equilibrati, moderati e obbedienti al magistero. Le buone ragazze di famiglia cattolica non erano più così morigerate e ogni tanto il loro stile usciva dalle righe previste. I preti si permettevano stili sempre meno “ufficiali”. E le perpetue avevano iniziato a mettersi gonne anche verdi, marrone e beige.

 Contrordine

La prima reazione ecclesiale, più inconscia che altro, è stata quella di una sterzata a “rinserrare” le righe, a ritrovare uno stile più uniforme e compatto. Senza decisioni ufficiali, ma in modo indiretto, attraverso tutta una serie di lievi “dietro front” rispetto alle aperture del post-concilio. Il mondo che è cambiato, e che continua a cambiare, ha prodotto una reazione difensiva, perché il timore di non poter più riconoscere il collegamento tra una sola fede e un solo stile religioso ha spiazzato moltissimi all’interno della Chiesa. Il timore che anche la Chiesa poteva “saltare” e andare in frantumi ha preso possesso del mondo credente, soprattutto di molta gerarchia e molti operatori pastorali, generando una reazione per istinto di sopravvivenza. Però uno degli effetti, oggi purtroppo evidente, è stato quello di tentare di perpetrare gli stili pastorali di allora, cercando di non cambiarli, senza accorgersi che questo rendeva impossibile ad un numero sempre crescente di persone di essere attratti dalla fede. Così abbiamo perso intere fasce di popolazione. I numeri sempre più risicati dei giovani che frequentano le parrocchie, la fuga delle donne quarantenni, l’abbandono di molti intellettuali, che sentono il senso del cambiamento del mondo e la fatica della Chiesa, ne sono la riprova.
Io non credo che tutte le perpetue amassero vestire di blu o di grigio o che tutti i preti stessero bene nell’essere così rigidi e melliflui nel loro modo di parlare. Ma se oggi non ci accorgiamo che l’uniformità dello stile dei credenti è un ostacolo alla testimonianza e alla bellezza del vangelo perdiamo molte buone occasioni per far brillare Cristo davanti al mondo, ed ogni stile di fede diventa autoreferenziale. In altre parole bisogna passare da una pastorale istituzionalizzata ad una personalizzata, dove l’unità della sola fede è resa possibile anche dentro a stili pastorali diversi anni luce tra loro.
Il bello di questa faccenda è che la “sterzata” a rinserrare le righe non ha prodotto molti effetti positivi e ha comunque lasciato i singoli credenti in “mare aperto”, con la necessità cioè di trovare strategie di sopravvivenza al cambiamento in atto. Pochi sono rientrati nei ranghi, perché, per chi percepisce come il mondo stia cambiando, è palese che l’uniformità ecclesiale della modernità oggi non serve a nulla, se non come “rifugio antimondano”. Ma la realtà della vita spirituale è già pluriforme, è già oltre, rispetto alle paure ecclesiali, o ai percorsi di fede che continuiamo a proporre. Spessissimo è un dato che nasce più dal bisogno di trovare una strategia di sopravvivenza di chi si sente “non accompagnato” nel suo percorso spirituale, lasciato da solo “in mare aperto”, che non dal desiderio autentico di coniugare, in questo presente, la propria personalità con la fede.

 Le persone prima di tutto

Che fare allora? Forse la metafora che meglio offre una prospettiva di risposta positiva è quella della navigazione a vista. Questo modo di procedere risponde ad un criterio pastorale preciso, che è il primo da tenere, se si vuole dare efficacia all’azione della Chiesa nel mondo di oggi: le persone prima di tutto. Prima dei contenuti, prima degli obiettivi, prima degli schemi operativi che abbiamo in testa. Prima anche di Dio. Perché le persone sono il luogo concreto in cui Dio mi chiama ad operare, per aiutarlo a suscitare, sviluppare e irrobustire la fede. Esse sono Gesù Cristo per me qui e ora. E se non le metto prima di tutto, non sto riconoscendo la Sua signoria. Come si vede è un principio teologico, oltre che pastorale, gravido di molte conseguenze.
Se preso sul serio, mette fuori gioco la tentazione, oggi molto presente nella Chiesa, di rifugiarci nello schema, qualunque esso sia, nel “si è sempre fatto così”, come nel suo opposto uguale: “il nuovo è sempre meglio”. E ci obbliga ad un lavoro continuo di ripulitura della nostra porta interiore, a cui le persone possono giungere se le andiamo a cercare, per lasciare che possano interpellarci così come sono e vedere se, rispetto a quella persona lì, siamo chiamati ad aprire o a chiudere, per il suo bene. Perché a volte si deve anche saper chiudere, per il bene dell’altro.
Se preso sul serio vuol dire, per esempio, che solo chi vive dentro a quella parrocchia, a quel movimento, a quell’evento, può decidere e scegliere, con cognizione di causa, quale strategia pastorale sia la migliore. La speranza è che il sinodo in atto non cerchi indicazioni generali da imporre a tutte le condizioni pastorali, ma ci aiuti a recuperare dei criteri procedurali, cioè del come fare e non di contenuto.
Se preso sul serio, significa ancora che non esiste una soluzione univoca possibile e che quella che possiamo indovinare noi, nei ruoli pastorali che viviamo, vale per quel momento e per quella situazione. Appunto, navigazione a vista. Evitando il rischio della generalizzazione. Che è uno dei mali peggiori dell’educazione alla fede di oggi, perché Dio non parla ad una umanità generica. Parla a Jonathan, Giusi, Anna, Gianluca. Ed è per questo che, se voglio evangelizzare proprio queste persone, devo stare con loro, partire da loro, sapendo che lo Spirito è già al lavoro dentro di loro, e preoccuparmi perciò di farlo emergere, più che di metterlo io dentro di loro.