Profeta per caso

Di come per essere felici basti poco e come un asciugamano ti cambi la vita

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

Image 078Domandare è lecito

Mia madre non piangeva tanto facilmente. Aveva gestito quasi da sola, a vent’anni e poco più, un plotone di fratelli minori, riuscendo anche a studiare, traguardandoli a fine guerra nella zona rovente dell’Appennino emiliano-romagnolo, e stava gestendo da casalinga una famiglia di cinque figli, la nostra, per cui, nel mio immaginario, per il mito che i fanciulli hanno dei propri genitori, incarnava un eroe. La prima volta che la vidi in lacrime avevo undici anni. Mi stava aiutando a lavarmi. Ad uscire dalla vasca, per la precisione, a porre termine a quel rito indispensabile per l’igiene così aborrito dai bambini e così puntualmente perseguito dalle madri, reso ancor più inesorabile dal fatto che, non riuscendo a farlo da solo per via della disabilità, non potevo in alcun modo aggirare tale calice. Non so se per una inconsapevole e maliziosa vendetta o per uno dei casi fortuiti che rendono i bambini singolarmente cinici, le posi senza enfasi la fatidica domanda: «Secondo te, io ho avuto un’infanzia felice?». La colsi in imbarazzo, lei, che aveva sempre una risposta pronta per tutti, che sapeva rincuorare tutti col suo buon senso illuminato, protagonista di conferenze diocesane sull’educazione e sulla relazione con i figli di tutte le età (i miei fratelli più grandi avevano diciotto e diciassette anni e avvertivano fortemente i fermenti del ’68). Eppure lei era lì, zitta, che mi guardava, quasi per carpirmi una dritta su cosa io desiderassi che mi rispondesse. Abbozzò un tentativo di risposta con un timido: «Non saprei... forse non sei stato molto fortunato...» e ancora silenzio. Nelle sue titubanze, l’ho realizzato diversi anni dopo, c’era il dubbio di come potevano essere valutati positivamente i più di tre anni di ricovero in ospedale, divisi in miriadi di degenze, prima per fermare la poliomielite e poi per cercare di ricostruire un corpo piuttosto falcidiato dal virus. Se potevano essere interpretati, col criterio del bicchiere mezzo pieno, i trapianti ossei che avevo subito prima di allora. E ancora, se il suo eterno sorriso non avesse presentato qualche crepa allorquando si opponeva con determinazione ad accanimenti terapeutici e cure maniacali. O quando bollava, con sicurezza incrollabile, come sciocche beghine, alcune ex amiche che, con fervente pregiudizio, imputavano in cuor loro ad una maledizione del cielo la mia invalidità (non illudiamoci: è un modo di pensare ancora di moda).

Una lacrima sul viso

Quel silenzio, che non mi pesava, la diceva lunga sulla criticità della domanda, creando uno spazio di opinabile in quella che per me era un’ovvia sicurezza. Forse avevo posto una domanda più grande di me. Così attesi qualche istante, con quella speranza propria dei ragazzi che desiderano veder avvalorate le proprie convinzioni da persone più autorevoli di loro. Poi, con incosciente sicurezza, srotolai il mio zoppo sillogismo: «Io penso di sì: mi vogliono bene tutti». La vidi immobilizzarsi nell’atto di prendere l’asciugamano, riscaldato almeno in parte dal termosifone. Poi, senza una parola, uscì rapidissima dal bagno e sparì chissà dove, lasciandomi, cosa estremamente insolita, senza la copertura del telo, in preda ai rigori del freddo (non che avessi veramente freddo, ma si sa che da piccoli non puoi aver freddo quando ti pare, lo deve decidere tua madre). Così rimasi, per un tempo non troppo lungo, un po’ confuso dagli eventi e incapace di sviluppare fisicamente l’azione risolutiva di asciugarmi e uscire, finché ritornò.

Era raggiante, coi bei capelli ondulati che tutti mi incolpavano di aver reso in qualche misura bianchi (per me era troppo bella perché qualche ciocca bianca potesse scalfirne l’immagine, per cui evitavo di sentirmi in colpa, senza desiderare approfondimenti). Se dall’espressione traspariva gioia, il lucido sotto gli occhi e la scia di una lacrima nella guancia destra rivelavano che aveva pianto, gettando ancor più in confusione la mia stentata ricostruzione degli eventi. Riprese là dove si era interrotto il suo gesto di distendere l’asciugamano e me lo avvolse da dietro le spalle, stringendomi nel più tenero e forte abbraccio che ricordi di lei. E mentre una delle sue ciocche mi cadeva sulla fronte, disegnandomi nello specchio il ciuffo di un improbabile Elvis Presley, mi disse con voce calma, ma lievemente alterata: «Oggi sono io che sono felice per merito tuo».

Image 084Nessuno è profeta in casa sua, ma il bagno fa eccezione

Ero ben lungi dall’immaginare l’universo di fatiche e sacrifici che si scioglievano in quel pianto e non mi rendevo certamente conto di quanto pesasse su di lei e su mio padre l’incognita del mio futuro, ma in quel momento, nella più assoluta incoscienza e in totale spudoratezza, quelle parole motivanti mi fecero sentire l’eroe degli eroi e se, come feci anni più tardi senza eccessivi entusiasmi, avessi studiato qualche rudimento di teologia amalgamato alla meno peggio, di sicuro mi sarei sentito un profeta. Di quelli più autentici, che mettono al servizio dello Spirito Santo la loro infima pochezza. In lei vedevo, senza capirlo e formalizzarlo razionalmente, il coronamento di un desiderio profondo, che doveva averla accompagnata, se non oppressa, in tutti quegli anni. Forse ancora meglio del miracolo della guarigione, si era tentato anni prima un viaggio a Lourdes con risultati nulli dal punto di vista pratico, un po’ di coraggio di affrontare la situazione sul piano morale. Per un colpo di fortuna, di quelli che non capitano tutti i giorni, avevo detto le parole giuste al momento giusto, liberando da una bella bega esistenziale il suo cuore, e per osmosi quello di mio padre (secondo me non dormivano la notte: stavano a raccontarsi tutto ciò che era capitato loro di giorno).

La logica conseguenza, senza pretendere la luna, che oggi ne traggo è che la felicità sia un po’ una miscellanea di interazioni, un “dai e vai” continuo, che sfugge prevalentemente al nostro controllo, ma di sicuro cercare di voler bene al prossimo è un vettore bidirezionale di essa, a cui possiamo e dobbiamo applicare il massimo della forza. Conseguenza della conseguenza: cari amici, datevi da fare a volermi bene più che potete, perché io vorrei essere ancora felice ed ho sicuramente bisogno di voi.