B.A.R.D. è l’acronimo di Beyond Any Reasonable Doubt, principio giudiziale USA – recentemente accolto anche nel codice italiano – secondo il quale «nel processo penale può essere ritenuto colpevole anche colui a carico del quale restino dubbi, purché si tratti di dubbi non ragionevoli» (F. Zaccaria). Tra “In dubio, pro reo” e “certezza della pena” le ampie distese della precarietà di vite segnate da sentenze “definitive” dentro le mura di un carcere. Col dubbio che serva a qualcosa.
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Tu sta’ dentro così (non) impari
Il dubbio oltre ogni ragionevole dubbio
DIETRO LE SBARRE
Abbi dubbi
Il dubbio più importante del mondo giudiziario è espresso da Giustiniano così: in dubio pro reo (nel dubbio si deve giudicare in favore degli accusati).
Una massima giuridica che rappresenta l’architrave dei sistemi giudiziari di tutti gli Stati di diritto. Chi scrive può tuttavia testimoniare che il beneficio del dubbio, per la maggior parte delle procure italiane, semplicemente non esiste: gli innocenti “sono colpevoli di un reato che non è stato ancora scoperto”. Le procure e l’amministrazione carceraria continuano ad ignorare non solo Giustiniano, ma anche ogni entità o dato di fatto, che possa far sorgere in loro un qualsivoglia dubbio sul loro modus operandi.
Alcune Magistrature di sorveglianza, le direzioni di molte carceri, i sindacati più radicali degli agenti penitenziari non hanno, né hanno mai avuto, dubbi che il massimo picco del pensiero politico espresso da Matteo Salvini, “prendeteli e gettate via la chiave”, debba continuare ad essere inesorabilmente concretizzato. Per coloro che hanno il potere e il dovere di offrire una carcerazione dignitosa e decidere sulle misure alternative, non contano gli appelli del Santo Padre, di ex PM ed intellettuali come Gherardo Colombo o Luigi Manconi, né valgono le impietose relazioni redatte dai Garanti o dalle associazioni per i diritti dei detenuti come Antigone e Nessuno tocchi Caino. Nemmeno il dato relativo ai suicidi riesce far a sorgere in costoro il dubbio che il modello carcerocentrico, che stanno perpetrando a dispetto dell’art. 27 della Costituzione, sia un totale fallimento.“Aumento dell’edilizia carceraria”, è la risposta che il Ministro Nordio e l’attuale esecutivo hanno offerto come soluzione all’aumento dei suicidi, proponendo così geometri al posto di educatori e cemento e laterizi invece di lavoro e pene alternative. Eppure, per far sorgere al Ministro Nordio il dubbio che tale proposta sia una clamorosa corbelleria, basterebbe una visita agli istituti, già peraltro edificati, di Bollate e Volterra, dove l’alto livello del trattamento detentivo e l’elevato numero di coloro che beneficiano di misure alternative è inversamente proporzionale alla bassissima recidiva. Se invece per gli esponenti del Governo Meloni visitare un carcere è uno sforzo inammissibile, e quando fatto dall’opposizione pure oggetto di un’interrogazione parlamentare, potrebbero almeno leggere i dati forniti da loro stessi: mentre la recidiva di coloro che hanno espiato la loro pena interamente in cella è del 70%, quella di chi ha avuto accesso a misure alternative è del 20%.
Che il Governo non abbia nessun dubbio sul fatto che il carcere debba continuare ad essere un magazzino di scarti della società da tenere rinchiusi tutto il giorno senza poter lavorare né studiare, è confermato dalla reazione negativa che ha espresso il Ministro Nordio alla proposta di legge dell’onorevole Roberto Giachetti, che consentirebbe ai condannati che hanno dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione di beneficiare di 60 giorni di sconto di pena per ogni semestre, invece degli attuali 45.
Ma se per i nostri governanti non esiste il benché minimo dubbio che ai detenuti non si debba concedere un po’ di libertà anticipata grazie ai loro miglioramenti personali, chi si trova recluso può invece trovare la libertà proprio nel coltivare dubbi, soprattutto su sé stesso, perché è da lì che può partire la ricerca di quello che si vuole essere veramente, in modo che, giunti alla presa di coscienza del proprio positivo cambiamento, questo non possa più essere soggetto a nessun dubbio.
Giulio Lolli
Nostalgia di futuro
Chi è detenuto, e soprattutto chi, come me, ha una pena lunga, si interroga sul proprio futuro. Il lavoro, la famiglia, gli affetti, gli amici sono domande pervase dal dubbio, dalla paura e dell’incertezza. Se penso a quando uscirò mi chiedo se avrò ancora la forza di lavorare e se la salute mi sorreggerà. In caso contrario come farò a mantenermi? Se poi penso alla famiglia non so cosa accadrà, non so se riuscirò a gestire legami affettivi tanto segnati dalla distanza e dalla lontananza. Mi riferisco in particolare ai figli e ai loro percorsi ancora incerti, pieni di dubbi sulla figura paterna che sono stato per loro. Ma il primo dubbio che ci arrovella è: quando verrà finalmente il momento in cui cominceremo a camminare verso la libertà, con i primi permessi e via via con gli altri benefici di legge? Saremo in grado di fugare i dubbi di chi oggi dubita di noi? Saremo in grado di riprendere in mano la nostra vita?
Filippo Milazzo
Il bene del dubbio
Fin dal 450 a.C., il dubbio è stato protagonista della filosofia. Socrate definiva il dubbio come verità, patì il carcere e preferì essere condannato a morte piuttosto che tradire. Più tardi sarà Cartesio (famoso per il motto “cogito ergo sum” ovvero “penso, quindi sono”) a fare del dubbio un metodo per giungere alla verità affermando, in antitesi ad Agostino, che il dubbio precede la verità. Più di recente, tanti filosofi hanno esplorato il dubbio come via per la conoscenza e chiave di lettura per la realtà; alcuni, come Hume, hanno negato l’esistenza della verità, affermando che è solo una generalizzazione empirica, altri, come Kant, hanno comunque salvaguardato la necessità dogmatica della ragione.
A me piace definire il carcere come prolungamento del dubbio che aleggia intorno alla condanna che ha causato la detenzione e la condanna stessa. Se mi è davvero difficile decidere a quale pensiero filosofico io mi senta più vicino, di certo faccio mia la frase di Cartesio, già solo per aggrapparmi ad una speranza, quella di un futuro, fuori da qui, meno complicato di quello che, purtroppo, nel dubbio più profondo, immagino per me. Questo luogo, infatti, fuori da qui, è considerato periferia, una vera e propria discarica sociale, e la popolazione che lo abita un ghetto dal quale prendere le distanze.
Assume, quindi, fondamentale e prioritaria importanza insinuare il dubbio nel pensiero della collettività, far comprendere la realtà del carcere, fra ciò che è oggettivo e ciò che è relativo. Oggettivo come ciò che si soffre all’interno di una casa circondariale, ma relativo rispetto al reato compiuto – o, peggio, non commesso –, alla capacità di sopportazione di un individuo, in base alla propria sensibilità, al proprio vissuto, alla propria cultura, alla propria intellettualità.
Una grande battaglia di civiltà: diffondere la consapevolezza che la galera non è altro che lo specchio della società, della quale la stessa è pienamente responsabile. L’attuale impianto della giustizia italiana e l’ordinamento penitenziario consentono di asserire che oggi nessuno, quand’anche innocente, può sentirsi del tutto al sicuro da una possibile ed inaspettata condanna ingiusta o sproporzionata. In barba all’art. 27 della Costituzione, per cui, secondo i Padri costituenti (tra i quali un certo Pertini, che il carcere lo aveva fatto), il carcere deve essere un luogo atto alla rieducazione e non al castigo, il trattamento carcerario è inumano.
Appare evidente, perciò, che si renda necessario un cambiamento radicale delle coscienze e della cultura: sia di coloro che giudicano gli imputati, sia dei cittadini, istintivamente giustizialisti, che non tengono in minima considerazione il fatto che uno Stato con più reclusi non è certamente più sicuro e che le carceri più inumane e restrittive non offrono alcuna concreta garanzia che i detenuti, una volta liberi, non ritornino a delinquere. Ecco il dubbio che dovrebbe calare sulle istituzioni e al tempo stesso sulla popolazione.
Qualcuno disse «ogni popolo ha i governanti che si merita»; qualcun altro che «non esistono cattivi allievi, ma cattivi insegnanti» e che «il frutto cade sempre vicino all’albero», io dico che «ogni società ha i carcerati che si merita».
Amedeo Gagliardi