Giocare o non giocare?
Amletici dubbi e tribolazioni domestiche
di Pietro Casadio
della Redazione di MC
Capita, in certi oziosi pomeriggi primaverili, quando il nostro fisico si ringalluzzisce per la buona stagione che va a cominciare, che la mente vaghi libera e spensierata ponendosi interrogativi bizzarri e privi di capo e di coda.
E così, mentre i nostri figli saccheggiavano lo scatolone dei travestimenti e facevano guerra a un’intera compagnia di orchi-robot, un amico - un po’ matto - mi presenta un dilemma pedagogico alquanto bizantino che potremmo riassumere con questo esempio: se gioco spesso con mio figlio (di un anno) a palla, lui, probabilmente, imparerà a giocare a palla e magari da grande vorrà fare il calciatore. Questo suo desiderio è genuino o influenzato da quello che io gli ho proposto? Il mio modo di stare con lui lo porta a volere essere un calciatore, ma magari sarebbe stato un bravissimo chitarrista, se solo avesse avuto un genitore capace di instradarlo nella musica! Da notare che l’accento non era posto tanto sulle innumerevoli
potenzialità inespresse che potevano annidarsi in ciascuno dei nostri figli (che nel frattempo, del tutto indifferenti ai nostri discorsi, avevano iniziato il “gioco delle scimmie” e si scambiavano urli animaleschi), quanto piuttosto sul fatto che il nostro agire educativo condiziona e “vincola” le loro prospettive, ingabbiandoli.
Ora, io lo so che posta così la questione poteva risultare banale, ma in quel dubbio si annidava un interrogativo congenito all’essere genitore: come si fa, cioè, a educare i nostri figli a essere liberi anche da noi che li abbiamo generati e che siamo (almeno nella prima età) il loro principale punto di riferimento, come impedire che siano il risultato di una semplice estroflessione di ciò che noi siamo? Tra l’altro finché si parla di sport o attitudini da coltivare, il problema è tutto sommato minimo, ma se estendiamo la questione ai valori della vita o all’educazione alla fede, la faccenda diventa molto più spinosa e scivolosa.
Un po’ di (insoddisfacente) pragmatismo
La chiacchierata con l’amico si è poi orientata su due piccoli capisaldi molto più pragmatici del punto di partenza. La prima cosa che risultava chiara a entrambi è che la soluzione non potesse essere quella di eliminare lo stimolo (non giocare a palla): esiste infatti qualcuno più condizionato, più “imprigionato” di colui che non ha avuto occasioni? D’altra parte, altra convinzione granitica, risulta impossibile anche far provare tutto o quasi tutto: i bambini, posti davanti a un eccesso di stimoli, ne ricavano solo una grande ansia da prestazione prematura e un’agenda più fitta di quella di un manager in carriera. E dunque via, gioca a palla con tuo figlio, se ti va, o mettiti con lui a suonare, se preferisci, perché qualcosa è meglio di nulla ed è meglio anche di tutto. Dai ai tuoi bambini quello che senti giusto per loro, perché è impossibile (e probabilmente ingiusto) scappare da qualsiasi condizionamento.
Sarò onesto con voi: questa conclusione, priva di astrattismo e infarcita di buon senso (e quindi del tutto lontana dalla mia forma mentis), è stata in un qualche modo dettata dalla necessità di giungere in fretta a una sintesi: urgeva un mio intervento perché Michela e Davide (la grande e il mediano) stavano iniziando un ferocissimo litigio per contendersi niente meno che un fogliettino di carta straccia trovato chissà dove. La mia cara nonna aveva un gustosissimo detto romagnolo su ciò per cui sono capaci di litigare i bambini, ma non posso riportarlo per rispetto alla testata per cui scrivo. In ogni caso sento il bisogno di fare ancora una riflessione su questa tematica (quella dei condizionamenti educativi, non il detto di mia nonna): come educare i nostri figli a essere liberi?
Educare al dubbio
Ecco, non è certo risolutivo, ma una cosa che potrebbe aiutare è educarli innanzitutto a coltivare il dubbio. Insegnare loro il gusto dell’incerto e dell’indefinito, anziché imbottirli di incrollabili certezze che nel migliore dei casi porteranno laceranti crisi adolescenziali, nel peggiore porteranno a un adulto borioso che si ritiene perfetto, o quanto meno “il più perfetto”.
Ma come educare al dubbio? Ahimè, questa è una domanda al di sopra delle mie possibilità e lo dimostrano i numerosissimi errori fatti (anche) a tal proposito come padre. Tuttavia vorrei buttare nel calderone qualche riflessione sparsa e frammentaria, cosa che peraltro si addice bene a quello di cui stiamo parlando. Innanzitutto direi che il tempo del dubbio è il presente. Dubitare di quello che è già accaduto serve a poco: quello che è stato è stato. Dubitare del futuro crea ansia e preoccupazioni su qualcosa che deve ancora accadere e davanti al quale, dunque, nulla posso fare. Piuttosto sarebbe bello poter imparare dal passato e saper affidarsi al futuro che verrà, nell’intima convinzione che la vita educa, con tutto il suo carico di fatiche, speranze, gioie e dolori. Limitiamo il dubbio al tempo presente: cosa sento, cosa sono, cosa scelgo.In secondo luogo aggiungerei che educare al dubbio significa educare a non giudicare. Sarebbe più comodo (ma non più bello) se fosse tutto bianco e nero e si dovesse solamente decidere da che parte schierarsi. La realtà invece si presenta a noi come difficile, confusa, complicata e noi non abbiamo mai tutti gli elementi necessari per capirla. Dunque non possiamo stare davanti alle situazioni della vita nostra e altrui con l’accetta in mano, lasciamo al buon Dio il compito di dividere con chiarezza il bene dal male. Se siamo capaci di accettare la nostra vista opaca, dubitando dunque del nostro punto di vista, impareremo a non giudicare tutto e tutti.
La risposta in un sorriso
Il terzo pensiero è che il dubbio è antidoto della fretta, uno dei grandi mali del nostro tempo. Il dubbio addestra al pensiero e insegna l’arte del non risolvere tutto subito. Soprattutto ci priva del completo controllo sul mondo che spesso esercitiamo con le parole e la razionalità tagliente, a patto, ovviamente, di non voler imporre il dubbio a tutti coloro che ci circondano. In questo indistinto invece non siamo padroni né di noi stessi né tantomeno degli altri e del mondo. Dubitare porta quindi a fare un passo indietro, a recedere, a lasciare spazio e tempo. Ed è in questo vuoto che può finalmente agire la Provvidenza.
Il quarto e ultimo frammento di questo confuso discorso è che il dubbio può essere un mezzo, un mezzo sacrosanto, ma non deve mai diventare un fine. Dubitare non può diventare un alibi per non fare, non scegliere, per vivere nell’indistinto. Arriva un momento in cui le scelte vanno prese: sono le migliori possibili? Forse no, ma solo una scelta fatta può portare a qualcosa di buono. Torniamo in questo caso a una delle due conclusioni pragmatiche fatte con l’amico: non c’è libertà nella non-scelta, ma solo una falsa illusione di onnipotenza.
Siamo infine giunti al termine di questo articolo. Rileggo quello che ho scritto e trovo ironico e in un certo modo coerente il fatto che mi stiano sorgendo numerosissimi dubbi. Così prendo il mio terzogenito (otto mesi), lo metto nel seggiolone e provo a rileggere ad alta voce l’articolo. Poi lo guardo e gli faccio: “Francesco, cosa pensi? Fila il discorso?”. Lui, fin troppo paziente, mi dà l’unica risposta possibile: alza lo sguardo dal suo giochino, mi osserva perplesso e sorride.