Dubito quindi soffro
Attraversare la vita, accogliendo il dubbio come condizione fisiologica
di Gilberto Borghi
della Redazione di MC
Quando si parla di dubbio, spesso viene in mente la classica definizione di “sospensione del giudizio”.
In realtà dubitare è una operazione umana molto più larga di ciò, perché ha a che fare non solo con la capacità di giudizio sui dati di realtà, ma anche e soprattutto con l’operatività della vita reale: il dubbio tende a bloccare la capacità decisionale, oltre che quella valutativa, tirando dentro anche volontà ed emozioni, perché pone la persona in uno stato di indeterminazione che può avere riflessi su tutta la sua condizione vitale. L’uomo, cioè, col dubbio entra nel campo dell’indefinito e sente che da quel campo difficilmente potrà uscirne indenne.
Gli algoritmi, invece, che gestiscono la rete, hanno solo possibilità definite, sempre e solo confinabili. Di fronte ad un dato da processare possono avere anche molte opzioni, ma tutte determinabili secondo l’operatore logico di base degli algoritmi: “se… allora”. Ciò significa che la possibilità di rispondere al processamento di un dato con l’espressione: “non so cosa fare” è anch’essa una delle possibili opzioni al pari delle altre, generate da una delle possibili applicazioni di quell’operatore: se non ho sufficienti dati, allora non posso operare. Quando si genera questa condizione, l’algoritmo prevede che il processo venga sospeso, in attesa di altri dati. E se questi non arrivano, o si attende all’infinito o il processo ricomincia da capo in loop.
Algoritmo vs vita
Una condizione, questa, che sembra essere molto distante dall’esperienza vitale delle persone in carne ed ossa. Che, invece, quando percepiscono l’impossibilità di operare una scelta, subiscono alterazioni molto rilevanti, sul piano dei propri processi vitali. Il dubbio reale, cioè, non è percepito come una delle possibilità tra le altre, che nulla smuove, perché, quando diciamo: “non so cosa fare”, avvertiamo una reazione emotiva che in qualche modo possiamo nominare come “sofferenza”. E allora, non solo il nostro processo elaborativo viene sospeso, in attesa di altri dati, ma il senso stesso del nostro esistere sembra incrinarsi, a volte anche gravemente, tanto da andare in pezzi e decidere che non vale più la pena di restare vivi. Possibilità questa che, al momento, nessun processo virtuale è in grado di formulare: l’algoritmo non si può suicidare.
Forse, proprio questa differenza tra la vita reale e l’algoritmo spiega come mai oggi dubitare non vada più di moda nel mondo reale, per due motivi. Dubitare comporta l’accettazione di gradi più o meno elevati di sofferenza. E questo sarebbe un pugno in faccia a uno dei dogmi fondamentali della post modernità: la ricerca esasperata del massimo livello possibile di benessere individuale. Secondo. L’abitudine agli algoritmi inclina verso una condizione in cui restare a vivere nell’indeterminato è sentito quasi come un loop patologico. Perciò molto meglio una verità in prestito, ad ogni costo, anche negando le certezze della scienza, piuttosto che l’accettazione di un dubbio che destabilizzerebbe quel poco di “comfort zone” che i singoli difendono con le unghie e con i denti.
Ma in realtà questo atteggiamento è solo la rivelazione della pochezza di senso che oggi, mediamente, i singoli riescono a ritrovare nelle proprie vite. E invece di lasciare che il dubbio possa allargare il proprio orizzonte di senso, mettendoci in crisi, si preferisce non rischiare, e decidere che il livello di senso e di felicità possibile oggi sia solo quel poco che disperatamente cerchiamo di difendere. Visto così il dubbio che genera sofferenza ha una profonda dimensione fisiologica, non patologica, nella vita dell’uomo.
Far progredire l’esistenza
Facciamo alcuni esempi. Dal ‘700 fino a metà del ‘900, il dubbio è stato visto dalla scienza come il grande ostacolo al progresso della conoscenza umana. Poi ci si è resi conto che la scienza progredisce proprio attraverso la messa in dubbio delle teorie che via via vengono create per dare senso ai dati di realtà. Einstein, Heisenberg, Bohr e Planck hanno permesso di costruire teorie scientifiche non facilmente compatibili tra loro, ma è stato proprio il dubbio reciproco che ha permesso il loro sviluppo. E da qui Popper ha ben compreso che la Scienza è tale per il principio di falsificazione: possiamo togliere il dubbio su una verità scientifica solo nel momento in cui essa viene dimostrata falsa. La scienza, cioè, è tale solo se usa il dubbio come grimaldello sistematico per dare forza alle proprie certezze. Certo che questa condizione mette inquietudine e anche sofferenza, perché dobbiamo riconoscere che le affermazioni assolute, che tanto ci potrebbero rassicurare, non sono scientifiche e che la realtà, attraverso di esse, può solo essere modellata secondo le nostre categorie, e mai essere accettata e riconosciuta sufficientemente per ciò che è.
Ancora. Sul piano esistenziale è ancor più evidente che nella scienza il ruolo giocato dal dubbio. Molto lucidamente Wittgenstein ci ha insegnato che ciò di cui abbiamo davvero certezza, di cui perciò possiamo parlare sensatamente, non sfiora nemmeno le questioni essenziali ed importanti della nostra vita. Il lavoro, le relazioni, le scelte di vita, la ricerca del senso, sono tutte questioni che abitano il terreno della probabilità, non quello della certezza. Con tutta la fatica, la sofferenza e il dolore che questo comporta. Ma è proprio l’arte di saper attraversare quel terreno che consente all’uomo di vivere nel senso dignitoso di questo verbo: all’uomo non basta sopravvivere. Ma per vivere bisogna ingaggiare una partita infinita con il dubbio, nella quale la logica della probabilità ci aiuta solo fino ad un certo punto, oltre il quale ci viene chiesto, invece, di intuire, di percepire e di fidarci delle nostre percezioni. Non una scienza, perciò, ma un’arte del vivere, perché l’esistenza cresce solo nella culla del dubbio. Questo, se vissuto come condizione fisiologica, senza cioè più combatterlo, è in grado di far progredire la nostra esistenza ben al di là di quanto la certezza scientifica ci possa regalare e di quanto mediamente osiamo sperare. Perciò non è la sofferenza del dubbio che fa crescere, ma la capacità di attraversarla senza rinunciare al desiderio di pienezza della vita.
La culla della fede
Su questo anche la filosofia ci fa da esempio. Per tutta l’epoca classica e poi medievale il dubbio è stato pensato principalmente come una condizione mentale da combattere. Tutta la ricerca della verità da Platone a Tommaso ammette sempre e solo due soluzioni: il vero e il falso. Pure Cartesio, che sembra dare valore al dubbio, in realtà lo usa solo sul piano del metodo, per tentare di fondare in modo assoluto la conoscenza umana. Ma anche per lui si danno solo vero o falso. Dobbiamo attendere Kant se vogliamo trovare una dignità al dubbio, nella categoria del probabile, pensata come situazione mentale non scorretta. Ma è solo l’esistenzialismo del ‘900, passando attraverso Husserl, che aprirà le porte alla riconsiderazione del mistero dell’esistenza nella filosofia contemporanea, in cui il dubbio è anche qui una buona culla della crescita della conoscenza.
Ciò sembra valere anche sul piano della fede cristiana. Ipotizzare che le certezze della fede siano esenti dal dubbio, significa non aver compreso che la fede non si dà nonostante la condizione umana in cui il dubbio è inevitabile, ma si dà proprio perché esiste il dubbio. E si dà in modo tale non da far sparire il dubbio, ma da chiedere al dubbio di continuare ad essere una buona culla della fede. Se la fede diventa “ipso facto” certezza, si riduce anch’essa ad una delle tante forme post moderne di affermazioni assolutiste, che nascono proprio perché non si accetta di vivere la sofferenza del dubbio, rinunciando alla pienezza di senso che attraverso il dubbio potremmo percepire. Ma così si riduce Dio ad uno strumento tappabuchi per consolare l’uomo della sua condizione di indeterminatezza.
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