Cercando un filo d’Arianna

Districarsi tra il bisogno di verità e la certezza del soggettivismo

 di Giovanni Salonia
sacerdote cappuccino, psicoterapeuta

  «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). La domanda di Pilato sembra avere il tono amaro e cinico di chi non crede più all’esistenza di una verità e reputa ingenuo l’interlocutore che ancora parla di verità.

Non aspetta risposta Pilato, ritorna dalla folla dei giudei e dei loro capi, che certamente non vogliono verità. Caifa poche ore prima aveva dichiarato che l’unica verità che vale è l’interesse personale e di gruppo: «È meglio che muoia uno – anche ingiustamente – pur di salvare il popolo» (Gv 11,49-50). Di fronte alla folla che urla non ha alcun senso chiedersi cosa è la verità. E poi a lui, procuratore romano, interessa unicamente non avere problemi né con i giudei né con i romani (né con la moglie).
Gesù non accenna una risposta. Tace. E viene alla mente un altro silenzio: quello di Jahvé che non risponde alla domanda di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). La prima domanda che l’uomo presenta a Dio. E rimane senza risposta. Che ci sia un rapporto tra la ‘verità’ e il ‘fratello’? Un interrogativo che vale la pena indagare.

 Dubbio metodico e verità assoluta

Il bisogno di verità è inscritto nella mente dell’uomo e preme per una risposta. Paradossalmente, anche la scelta del ‘dubbio metodico’ viene vissuta come ‘verità’. E la scelta della ‘verità assoluta’ deve continuamente mettere a tacere i dubbi che emergono dal profondo del corpo e dalle parole degli altri.
L’essere inclini a una o all’altra soluzione – appassionati della verità assoluta (le cose sono o bianche o nere) o affascinati dal dubbio (dubito ergo sum) – sembra fortemente condizionato dalla prima infanzia, da come i genitori sono stati rigidi o flessibili sul tema della verità. Mentre sentiamo emergere la domanda di fondo (chi ha ragione?) comprendiamo che forse dovremmo incamminarci per strade nuove: approdare a nuovi paradigmi che, superando lo schema binario (‘vero o falso’), si aprano alla consapevolezza che la verità che l’uomo cerca non può non essere umana. Una verità dentro la condizione umana: una verità che si offre a noi frammento dopo frammento, in un progressivo velarsi e svelarsi che attraversa mai definitamente l’inevitabile territorio dei dubbi. Se “nessuno ha visto Dio” (Gv 1,18) nessuno ha accesso pieno e diretto alla verità, ma la verità si offre dentro e non oltre il perimetro dell’umano limite.
I dubbi paradossalmente non possono diventare punto di arrivo ma necessario territorio da attraversare per evitare le derive dell’assolutizzare la verità o il dubbio, accettando il cammino impervio di un relativismo che non indebolisce ma rafforza la verità. Relativismo ‘nuovo’ che non nega la verità ma la rende ‘vera’ perché la incarna nella grammatica della condizione umana. Una verità parziale o momentanea diventa ‘vera’ se sostenuta con l’onestà di chi cerca e l’umiltà di chi dichiara i propri limiti. Se – come dice il poeta – la verità non vuole il forcipe è perché ‘crescit eundo’: è inscritta in un cammino in cui si alternano luci e ombre. Parafrasando Freud potremmo affermare che la verità si dà a noi come un faro che alterna la bellezza della luce con la ricerca nel buio.

 Giù dal trono

La comprensione del modo in cui conosciamo la realtà ha interessato in modo serrato la ricerca filosofica moderna, in modo particolare dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Le idee luminose di Kierkegaard (la verità è tale se ‘verità-per-me’), la curvatura del sospetto metodologico (Nietzsche, Marx e Freud), le ricerche della fisica (Heisenberg) sono approdate alla «fine della metafisica», delle «meta-narrazioni» (Lyotard, Vattimo), del punto di vista oggettivo e imparziale della realtà (Putnam), di quello che era chiamato metaforicamente, ‘il punto di vista di Dio’.
I grandi sistemi filosofici o religiosi per secoli avevano rappresentato i punti di riferimento, quasi una paternità virtuale, da cui provenivano sia la spiegazione che la legittimazione dell'esistenza di una ‘verità assoluta’. Il regista Luchino Visconti sintetizzerà questi cambiamenti con il titolo di un suo famoso film: La caduta degli dèi. Senza dèi – nei cieli e sulla terra – rimaniamo senza verità assoluta. Siamo ricondotti o – direbbe Heidegger – ‘gettati’ nel mondo della nostra creaturalità. Di Dio non si può parlare da dio. E la fede è credere e non vedere. E vuole timore e trepidazione. Evitando il rischio, paventato da un teologo, che chi parla di Dio, a lungo andare, finirà a parlare da dio.
Ci è stato tolto insomma il trono della verità assoluta (e il suo antagonista che è il ‘dubbio metodico’). La realtà si offre alla conoscenza a frammenti sia a livello fisico che relazionale: nessuno vede un oggetto contestualmente da tutte le sfaccettature e nessuno conosce l’altro prescindendo dall’interazione con l’altro. In altre parole: la conoscenza non è un processo lineare ma di indissolubile reciprocità, e richiede che per accertarne l'adeguatezza l'osservatore abbia un riscontro esterno. Distorsioni, illusioni e ambiguità percettive sono sempre possibili e rendono certamente più precarie e deboli le certezze della soggettività percettiva; per cui diventa necessario e coerente aprirsi alla verifica e al confronto con altre percezioni. Percepire è sempre selezionare parti della realtà e organizzarle in una Gestalt, in una forma comprensibile. E spesso il bisogno di chiedere la forma, di dare un senso a ciò che vediamo ci rende capaci di supplire con inferenze alle parti che mancano. Come sosteneva Perls, è il bisogno che dà struttura alla percezione.

 Alcuni suggerimenti

La percezione è sempre e necessariamente soggettiva: può essere condivisa, ma rimane arbitraria e situata. Non esiste la possibilità di una percezione descrittiva che sia neutrale. Il nostro pensiero è costretto a dichiarare così la propria costitutiva povertà, perché ciò che esiste si presenta sempre nel gioco mai risolvibile di oscura epifania e di luce apofatica. Eppure solo da qui può avviarsi un cammino fecondo, perché la povertà riconosciuta colloca il pensiero stesso nei suoi insuperabili limiti e nel suo costitutivo rimando alla relazione. Come venir fuori da questo labirinto? Si può rintracciare un filo d’Arianna che permetta di muoverci ed incontrarci?
Cominciamo con il suggerimento accorato di Gadamer. Il primo punto, per accostarsi al fuoco sacro e irraggiungibile della verità, è esplicitare a noi stessi e agli altri con onestà e umiltà la pre-comprensione, il nostro punto di osservazione. Distinguere quello che vediamo da ciò che ipotizziamo, il registro denotativo da quello connotativo, il descrittivo dall’interpretativo.
Secondo suggerimento: tenere presente che la sincerità non è garanzia di autenticità. La sincerità riguarda la coincidenza tra ciò che pensiamo e quello che diciamo, mentre l’autenticità fa riferimento alla triplice coincidenza tra ciò che pensiamo, ciò che abita il nostro cuore e le nostre parole. Si può essere, quindi, sinceri ma non veritieri.
Terzo suggerimento: collocare ogni nostra verità nel qui-e-adesso della nostra esperienza. Consapevoli che ‘non sappiamo di non sapere’, per cui collocheremo ogni affermazione dentro l’umile certezza che parliamo di ciò che sappiamo e neppure immaginiamo ciò che non sappiamo. Questo ci dona la certezza che è possibile agli umani. Riconoscerlo ci rende forti e recettivi.
Saggiamente ripeteva Wittgenstein: «Di ciò che non si può parlare è meglio tacere».
Ed è un trucco inutile e anche dannoso ricorrere al concetto di inconscio. Si tratta di uno dei concetti che ha danneggiato la qualità delle relazioni umane. Può avere un senso nella relazione psicanalitica, ma fuori dal setting l’inconscio è l’icona della violenza della verità. Ogni volta che affermiamo di avere ragione sull’altro, di conoscere la sua verità appellandoci all’inconscio, compiamo un atto di violenza e di manipolazione. Rimanere nella consapevolezza che ci sono aree sconosciute dell’esserci nostro e altrui e trattarle con rispetto, senza imporre mai all’altro la verità su di lui, è il limite invalicabile dell’onestà relazionale.