L’insostenibile leggerezza della felicità

Per fede, per contagio, per caso, credenti o no, possiamo cogliere momenti felici da assaporare a lungo

di Laura Montanari
Coordinatrice culturale del Punto d’incontro ai Cappuccini di Ravenna

Image 062Convivialità

A volte non si riesce nemmeno a pensare ad una felicità possibile per l’uomo. Almeno, a me è capitato, in alcuni periodi della mia vita, ma poi sono risorta alla luce della vita, alla fiducia e alla speranza. Quando mi è stato chiesto di scrivere qualche pensiero sulla felicità, di riflettere sull’argomento, e che argomento, da Epicuro in poi!, ho temporeggiato. Però poi padre Dino Dozzi invita a pranzo a casa mia frate Michele, e lo accompagna. In tavola, piatto forte del menù, la felicità.

L’avvio del pranzo si apre con il messaggio di Benedetto XVI per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il giovane fra Michele, sintetizzando le ragioni del pontefice, filtrate con sue personali convinzioni, mi dice che la felicità è alla portata di tutti, anche dei non credenti. Solo i credenti però la fanno risalire ad un dono di Dio. Così la loro gioia è piena (Gv 15-17;16,24), perché oltre al dono colgono il donatore e nella consapevolezza della fonte trovano una pienezza che è anche alla base della imperturbabilità di “quella” gioia, che dura anche quando il dono pare assente o oscurato. Gesù sulla croce non prova certo gioia ma resta attaccato a quella sorgente di vita che è il principio della sua risurrezione. Se anche i non credenti, nutriti di grandi ideali, possono fare esperienza di serenità superiore e trascendente, ad essi manca però un cuore pulsante di vita, un cuore di Padre.

Seguo con attenzione, ma se condivido alcune affermazioni (l’anelito alla felicità che è nell’uomo, lo slancio della felicità alla condivisione, le false lusinghe del bene…) e se effettivamente ho presente eccezionali dimostrazioni di forza d’animo in credenti colpiti da tragici eventi, resto molto dubbiosa sulle conseguenze ultime che derivano dal messaggio, cioè che la felicità vera è esclusiva del cattolico di fede, che il cristiano non può essere “mai” disperato. E che la fonte della vera gioia risiede solo in Dio.

Ho davanti a me due uomini che hanno fatto professione di fede, perciò viene ovvio metterli alla prova. Chiedo a fra Michele di parlarmi della gioia della sua conversione, dato che, afferma il pontefice, la gioia più grande, una gioia speciale, è quella del giovane che sceglie di donare tutta la propria vita al Signore, seguendo la via della vocazione religiosa. Mi racconta di un cammino graduale sereno, della percezione via via più chiara di una nuova potenzialità, del passaggio da una sensazione di limite, di non piena fiducia nella vita, forse di paura, all’aprirsi di una strada verso cui incamminarsi, affidandosi a qualcuno, a una guida che accompagna. La sicurezza che non si è mai soli, pur nelle difficoltà, porta a vivere la felicità come pienezza ed insieme essenzialità. Penso che è certamente una bella esperienza, ma mi pare di intravedere vicende, emozioni e riflessioni comuni ad altre esperienze di forte vocazione, che so, vocazione all’arte, alla scienza, al matrimonio.

Image 066Rapidi sondaggi

Chiedo invece a padre Dino, a bruciapelo, se è felice. Risponde sì, e motiva con la consapevolezza di avere la pace interiore, di avere il beneficio di relazioni appaganti, di essere impegnato a fare cose «per rendere il mondo un po’ più bello». Anche in queste parole trovo riscontri con l’esperienza di tanti laici di buona volontà, che credono nel valore della “comunità” (la famiglia, la città, la società, la patria…) per cui si adoperano, gratificati dal loro impegno e dai risultati. Per provocare un confronto tra i due, magari nell’intento di scoprire sfumature diverse, chiedo se il credente è felice perché sa che la morte non è la fine di tutto, che nella vita ultraterrena avrà compenso della sua fede. Quindi, la felicità è nell’attesa. Mi si risponde, univocamente, che “non funziona così”, che la felicità è già qui, su questa terra, che dopo l’incontro con Cristo la vita terrena si rinnova, diventa qualitativamente migliore, si arricchisce di una sicurezza di fondo, di «assenza di negatività» che rigenera e dispensa gioia. Comprendo, ma sono nel dubbio se la percezione di rinascita, di profondo rinnovamento di sé e della propria vita sia o no frutto esclusivo dell’abbracciare la fede. Di “rigenerazioni” in senso laico se ne contano tante.

Il fluido conversare con fra Michele, che ha l’età di mio figlio, mi induce, qualche giorno dopo, a fare un rapido sondaggio fra un paio di coetanei, mio figlio stesso e l’amico di sempre, che vivono “nel mondo”, nella corsa del tempo, tra le lusinghe facili di questa nostra società, e che dopo la Comunione, come tanti, si sono allontanati dalla parrocchia e dalla Chiesa. Ho qualche timore, nell’interpellarli, che abbiano introitato i modelli mediatici dominanti. Provo perciò sollievo quando entrambi affermano di credere nella felicità («è persino impossibile pensare che non esiste»), e sorrido quando ne enumerano i significati («saper riconoscere e apprezzare le piccole gioie che la quotidianità ci offre», «svegliarsi la mattina col sorriso e proseguire la giornata con la carica giusta», «affrontare i problemi senza sovraccaricarli di preoccupazioni», «stare bene in compagnia degli altri e con se stessi», «essere circondati da persone che ti vogliono bene e avere al proprio fianco la persona giusta»…). Sono felice che sappiano dire della felicità, pur senza nominare Dio. Sostengono che la differenza non è tanto tra credenti e non, ma tra chi confonde il benessere materiale con la felicità, che sono tanti, come pure tanti sono i giovani che non conoscono o non riconoscono la felicità.

Io credo nella felicità, credo che sia insita nell’uomo l’esigenza e la ricerca della felicità, e che sia possibile viverla consapevolmente. E credo nella serenità, ma tra i due “stati dell’animo” faccio differenza. La serenità, che dà benessere e stabilità alla vita, può essere anche condizione esistenziale durevole, perché è una conquista, frutto di una ricerca di equilibrio tra il bene e il male che attraversano le giornate. È padronanza e governo di noi stessi nella quotidianità, è la forza di affrontare i fastidi, le frustrazioni, e anche, incredibilmente, il dolore, quando il percorso personale compiuto, in breve o lungo tempo, ci ha reso consapevoli dell’imperfezione, della finitezza della vita umana e nel contempo della libertà e della responsabilità che ciascuno di noi ha.

Image 074Inni alla vita

Se si è riusciti a raggiungere la serenità come stile di vita, è più facile non tanto “vivere” i momenti di felicità (la felicità tocca tutte le vite), quanto esserne pienamente consapevoli, riconoscerne anche la natura semplice, apprezzarli per quello che ci donano e per quanto durano, senza poi cadere nello sconforto quando finiscono. «La felicità lambisce, balena e poi dispare», afferma il filosofo Salvatore Natoli (La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 251). E ancora: «agli uomini accade di essere felici». La felicità è un bene, un dono di breve godimento, che non necessariamente sta in noi meritarcelo o procurarcelo, ma che può, anche inaspettatamente, esserci concesso. Da chi? E perché? I miei riferimenti sono ancora una volta, come riguardo tragedie inspiegabili, il caso, il destino, il mistero. Non cerco risposte, non mi preoccupo più di tanto: mi basta che la felicità abbia dato sapore alla mia vita, più volte, e che, pur essendo avanti con gli anni, io creda ancora di poter vivere molti altri momenti di felicità, di gioie piccole e grandi. Sono passata attraverso esperienze di dolore, di difficoltà, di opacità, ma so e sento che la vita è bella, è preziosa, che offre doni, tra cui la felicità. Non mi importa conoscere la fonte di questo dono, mi preme riconoscerlo, apprezzarlo e cogliere il nutrimento, emozioni, sensazioni, benessere e gioia che dà al corpo, allo spirito, all’intelletto. E mi sembra anche molto bello che la felicità, soprattutto una grande felicità, non si possa contenere dentro se stessi, ma sprigioni la voglia di condividerla con altri, di essere in sintonia con il partner, con gli amici, i genitori, con le persone che passano accanto per caso... e possa addirittura “contagiare”! Quando si è felici, la luce interiore si vede e si diffonde, soprattutto attraverso gli occhi, anche se ciascuno è felice a modo suo, per motivi suoi, i più diversi, legati anche magari alla cultura, al contesto sociale. Ma si può essere anche felici “di nulla”, felici di se stessi in se stessi, in situazioni di silenzio, di solitudine, semplicemente nell’abbandono alla natura. L’esperienza si fa quasi mistica, sì, perché esiste una spiritualità anche senza Dio. Il filosofo André Comte-Sponville, nel libro Lo spirito dell’ateismo (Ponte alle Grazie, Milano 2007, pp. 173), descrive la sua prima, bellissima esperienza di felicità “mistica”, vissuta a venticinque anni in una foresta del nord della Francia. Dunque, i cattolici “felici”, ma non penso “sempre”. Assaporano la felicità in attimi, come i non credenti, gli atei. Rileggo due poesie, l’Inno alla vita di Madre Teresa di Calcutta e Lentamente muore di Martha Madeiros. In entrambe si coglie un identico messaggio, una celebrazione dell’incredibile esperienza del vivere, lo sprone a mettersi in gioco fino in fondo, nella consapevolezza che la vita è battaglia, ma anche felicità. «La vita è felicità, meritala», dice Madre Teresa. «Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità», conclude la Madeiros. Due donne, una cattolica e una laica, in perfetta sintonia.