È con un tuffo nostalgico nelle melodie degli anni 60 che comincia il nostro tè. Le note fluiscono dal cellulare di Maura ma ci guardiamo fra di noi perplessi: nessuno, lì per lì, riconosce il motivo e nemmeno il cantante. «Non la conoscete? Scommetto che dal ritornello l’individuate, sentite, sentite…» ci sprona Maura sorridendo del nostro disorientamento. Ed ecco che Angelo, di fronte a me nel cerchio, si unisce alla voce del cantante: Dai facciamo cin cin con gli occhiali. Cin cin dai noi siamo speciali, portiamo gli occhiali, dai vieni con noi. Cin cin dai il mondo è di tutti, dei belli e dei brutti, è nostro se vuoi…
a cura della Caritas Diocesana di Bologna
A noi, diversi e speciali
Costruiamo ovunque gli “altrove” dell’accoglienza
IL TÈ DELLE BUONE NOTIZIE
«Ma sì, è una canzone di cinquant’anni fa! La cantava Herbert Pagani, vi ricordate? Si chiamava proprio “Cin Cin con gli occhiali”».
Immediatamente parte un allegro giro alla fine del quale ci troviamo divisi fra gli «Eh, io non ero ancora nato» e i «Ma certo! Che nostalgia!». In tutto ciò resto ancora perplessa: che c’azzecca questa canzone con il nostro tè? Evidentemente Maura ha anche doti di lettura del pensiero perché subito dà voce al mio dubbio: «Quindi, che cosa c’entra la canzone con il nostro argomento di oggi?». Ancora un po’ di confusione anima il gruppo, ma Maura ci spiega: «La simpatica canzone che abbiamo appena ascoltato ci ricorda quanto sia difficile, a volte, sentirsi a proprio agio essendo diversi. Allora vi chiedo: vi è capitato di sentirvi diversi? E quando invece sono stati gli altri a definirci così, è stata per noi una fatica oppure no? E ancora: esistono luoghi o situazioni specifiche in cui si riesce a stare vicini anche se differenti?».
Ammalarsi ed accudire oltre la porta
«Io sto accudendo una persona» dice subito Francesco, il timbro dell’urgenza nella voce. «Lo conoscete anche voi, è Giancarlo, viene in mensa». Un mormorio preoccupato si diffonde nel cerchio. «Era da un po’ che non lo vedevo in giro ed ero preoccupato. Martedì sera c’ero anch’io con la squadra del 118 che gli ha sfondato la porta di casa. L’abbiamo trovato per terra. Non era capace di muoversi, poverino, chissà quanto era rimasto così, sul pavimento, da solo. Tremava impaurito e nemmeno si era accorto di essere caduto. È stato ricoverato immediatamente e hanno scoperto che ha il Parkinson… Io lo conoscevo e vedevo che aveva bisogno; ne avevo parlato anche con le assistenti sociali, ma nessuno si è mai mosso per lui. Sapete allora qui qual è la diversità? Giancarlo era malato, eppure era invisibile! Avremmo dovuto accorgercene prima, di come stava davvero… La malattia rende “diversi” ma soprattutto fa paura e, per questo, alla fine è rimasto solo ed isolato».
«Per me ha ragione la canzone!» interviene Ivano, pacato e con la voce velata di tristezza. Poi si guarda intorno in cerca di comprensione e prosegue: «Quando ero piccolo mi chiamavano “quattr’occhi e due stanghette”: è difficile poi non farsi venire i complessi! Mi davano sempre un sacco di nomignoli strani. Non era bello. E poi avevo una situazione familiare non comune: avevo la mia mamma, ma il mio papà non era il mio papà biologico. Perciò sempre mi sentivo, e mi facevano sentire, diverso dagli altri, inferiore. Per questa faccenda, anche dentro la mia famiglia ero considerato differente e mi emarginavano. Crescendo ho imparato a non farci troppo caso, ma ancor oggi certi episodi continuano a tornarmi su e a ferirmi: come quella volta che un mio zio - era malato quasi in punto di morte - mi ha chiamato solo per dirmi che ero la pecora nera della famiglia… Son cose brutte queste!».
Ambienti e supplememti
«Mia madre proprio non mi voleva» dice Rita, le guance arrossate, lo sguardo serio puntato avanti, attenta, come una sentinella di guardia, a non farsi invadere dalle emozioni. «Fin da bambina, mi son sempre sentita giudicata, non capita, diversa… La mancanza di amore mi ha indebolita e di conseguenza mi sentivo sempre fuori luogo. Mi ammalavo spesso. Non essere amati, rende fragili. Per tanti anni è andata avanti così. Per fortuna ero carina e quindi avevo sempre qualcuno intorno. Ho imparato a sorridere, ma dentro ero ferita, sentivo di non valere nulla. Ero come prigioniera. Poi, a quindici anni, ho incontrato quello che è divenuto mio marito: lui mi ha amata infinitamente, mi ha dato fiducia, mi ha supportata sempre e in tutto. Grazie a lui ho cominciato a vivere. Ora che l’ho perso, mi sento spesso molto sola e faccio fatica ad andare avanti. Però ho trovato alcuni ambienti in cui la mia fragilità non è stata un problema, anzi: sono stata volontaria in ospedale e ho aiutato tanti; il lavoro mi ha dato anche belle soddisfazioni e poi ci sono i miei figli che mi vogliono un gran bene e, devo dirvi la verità, anche qui io mi trovo sempre molto bene!».
«Nella maggior parte dei contesti in cui ho vissuto, io mi son sentita “diversa” e proprio come Rita ho avuto una grande mancanza di amore materno» dichiara Carla, solidale «ma debbo ammettere di aver avuto un supplemento di amore da parte di mio padre, un uomo che stimavo moltissimo e che certamente era una persona fuori dal comune. Forse per questo, la mia diversità non mi ha mai dato fastidio, così come la reazione degli altri al mio comportarmi in modo differente. Penso che siamo davvero tutti diversi; ciò che è sostanziale, però, è mantenere una base di umanità che permetta di riconoscerci».
Cus’el?
«Se mi sono sentito diverso? Io sono il figlio della portinaia del palazzo dove vivevo - ricorda Carlo - I figli dei signori che abitavano ai piani sopra, quando mi vedevano giocare solo in cortile, si divertivano a tirarmi addosso le secchiate d’acqua. Erano tremendi con me! Ci soffrivo, ma non volevo dire nulla ai miei, non volevo creare guai; allora restavo fuori, bagnato come un pulcino, finché l’aria e il sole non mi asciugavano completamente… Quei ragazzi mi hanno umiliato tante volte. Fu un periodo molto difficile per me. Poi, crescendo, ho scoperto che mi piaceva studiare. Ricordo quando andai da mio padre a dire che volevo iscrivermi al Liceo Galvani. Mio padre mi squadrò e mi disse in bolognese: “Cus’el?” Che cos’è? e poi mi rispose che potevo fare ciò che volevo, ma se non andavo avanti con lo studio, sarei dovuto andare a lavorare. E io andai avanti, fino a diventare un medico. Riscattai la mia diversità nello studio».
«Il problema vero è chi ti fa sentire diverso!» esclama Maurizio, turbato, e poi riprende con la sua solita ironica pacatezza. «Vedete, io credo che Gesù sia venuto in terra per redimere i ricchi, non certo per i poveri che, con tutto quello che passano, son già pronti per il Paradiso. Ecco, allora bisognerebbe assegnare degli assistenti sociali ai ricchi, perché riflettano sui loro comportamenti assurdi e imparino a stare al mondo!».
«Per 25 anni ho abitato in Tanzania» interviene Tommaso. «I miei confratelli ed io eravamo oggettivamente dei “diversi” là. Eppure nel villaggio ci hanno sempre fatti sentire ospiti graditi ed hanno dimostrato una capacità di accoglienza che qui dobbiamo riscoprire. Nel tempo poi ho sentito crescere fra noi una umanità che davvero ci legava tutti: alla fine i problemi supremi sono comuni a tutte le culture».
«Vedo anche qui tanti segni positivi» si fa avanti Carla con fervore. «Quando ero giovane c’era una spietatezza nei confronti del “diverso” che oggi non esiste più così… c’erano i manicomi! Ma vi ricordate? Io lavoravo in ambito ospedaliero ed era normale chiacchierare della vita privata dei colleghi: si stigmatizzavano tutte le situazioni “fuori standard”. Io oggi vedo molto più rispetto. Sono segni positivi questi!».
«Devo confessarvi che per molto tempo ho provato vergogna del mio essere diversa» si fa avanti Didi con coraggio. «Oggi noto che più diversità c’è in un luogo e più è facile stare bene insieme. La fortuna è allora frequentare ambienti in cui le diversità sono tante e proprio per questo può emergere l’umanità che le accomuna e così, nella diversità di tutti, diventa ricchezza quella di ciascuno. Mentre parlavate vi osservavo: non so se altrove ci potrebbe capitare di rispecchiarci nella diversità dell’altro come accade qui».
Grazie Didi! Ma allora: come sarebbe migliore il mondo, se ciascuno di noi operasse per costruire ovunque questi “altrove”? Non è difficile, in fondo: tutto comincia intorno ad una tazza di tè.