Sarebbe bello se il bianco e il nero fossero i gusti panna e cioccolato di un gelato bikini. Sarebbe bello se ebano e avorio «vivessero insieme in perfetta armonia, fianco fianco come sulla tastiera del mio pianoforte, aggiunta alla diversità delle pene che frammentano l’umanità in carcere».
a cura della Redazione di “Ne vale la pena”
Sarebbe bello…
Come bianco e nero, come giovane e vecchio, promessa e memoria
DIETRO LE SBARRE
È dentro la chiave per (ri)uscire fuori
Pensavo che il carcere fosse un ambiente molto simile a quello militare. Ben presto, però, dopo essermi consegnato, ho realizzato che l’esperienza che mi stavo accingendo a vivere si sarebbe dimostrata molto più dura.
Le persone, da libere, me compreso, non riescono a concepire né a percepire minimamente quanto la realtà superi ogni immaginazione. Così ti ritrovi improvvisamente catapultato in un mondo che non è il tuo, abitato da persone che non ti appartengono e che sono lontane anni luce dal tuo modo di agire, dalla tua cultura, dal tuo modo di pensare e dalle tue filosofie; persone diverse per etnia, per religione, per usi e costumi, per credo ed esperienza di vita.
Ti senti annichilito e frustrato, i tuoi pensieri si moltiplicano incessantemente e pervadono il tuo cervello di negatività, di paura e di sconforto. Poi cerchi di raccogliere le idee e riesci via via ad acquisire la consapevolezza che devi iniziare a convivere, tuo malgrado, in una struttura che ti ospita, ma che ha ben poco di ospitale, gestita da persone che decidono per te cosa devi e puoi o non puoi fare, in che modo e quando, insieme a persone che non condividono con te quasi nulla, nemmeno i gusti gastronomici.Ti senti impotente di fronte ai soprusi, all’imposizione di decisioni altrui, di fronte a convivenze forzate. Il tempo, intanto, trascorre, fai i conti con tutto ciò che ti sta accadendo e provi a digerire il boccone amaro, cercando aspetti positivi ai quali aggrappare il tuo fragile stato d’animo; ed allora cominci a familiarizzare con il tuo vicino, con il quale fuori, molto probabilmente, non ti saresti scambiato neppure un cenno di saluto, e ti relazioni con tutti, scoprendo che ognuno ha una propria storia da raccontare, talvolta incredibile, fino a renderti conto che anche la polizia penitenziaria ha un motivo per essere qui.
E ti sorprendi nel vedere quanta umanità ci sia qui dentro, di quanti talenti sia affollato questo luogo e, come ultima analisi, di quale sia la portata della prova cui la vita ti ha messo davanti. È proprio in quel momento che il tuo approccio verso gli altri muta in modo propositivo. Forse la chiave per il reinserimento futuro nella società cosiddetta “civile” è insita in questo atteggiamento e trasformi il tuo “uniti, ma diversi” in “uniti anche se diversi”.
Amedeo Gagliardi
E nessuno sia chiamato superiore
Attualmente la popolazione carceraria è costituita da 61.000 persone, di cui un terzo di origine straniera. Paragonata agli stranieri presenti sul territorio nazionale la percentuale è molto elevata, dal momento che in Italia risiede soltanto il 9% di stranieri. Da questi dati emerge che nelle carceri italiani sono presenti detenuti di diverse nazionalità, lingue, religioni e culture. Possiamo definire dunque le patrie galere come un luogo cosmopolita, in cui si incontrano persone provenienti da diversi Paesi del mondo.
Se la cella è fatta soltanto per due persone, la vita detentiva è agevolata, ma quando ci sono tre, quattro o cinque detenuti, se non più, la convivenza diventa ancora più difficile. In simili condizioni, ci si può immaginare che le discussioni possano scaturire per qualsiasi tipo di questione. Ovviamente tutto ciò è normalissimo. Nella maggior parte dei casi i reclusi cercano di andare in cella, o camera di pernottamento, come vengono chiamate ultimamente, con persone dello stesso paese, perché ci sono più possibilità di avvicinarsi, in primis per la lingua, ma anche per le tradizioni e la cucina.
Non sempre però ci si riesce. Allora, se la convivenza non è compromessa, si sta insieme, altrimenti è possibile fare una richiesta alla Direzione del carcere per cambiare la camera. Se all’interno della propria cella si sta con i propri compaesani o con persone con cui si va d’accordo, i problemi sorgono nei momenti di convivenza fuori dalla cella, ossia nei reparti e in tutti gli altri spazi comuni.
Alcune etnie fanno gruppo e vogliono avere l’egemonia all’interno delle sezioni. Questo comportamento genera spesso scontri, non soltanto verbali, ma anche fisici. Nonostante tutti i contrasti che si possono immaginare, prevale però il fatto che “siamo tutti sulla stessa barca”, e perciò la maggioranza di noi cerca di evitare i conflitti per superare questo periodo di vita con meno problemi possibili.
Come fuori, anche qui dentro la diversità tende a far paura; però quando si convive da vicino con persone provenienti da altre parti del mondo si comprende che alla fine non si è tanto diversi. Il luogo di detenzione diventa dunque un momento di conoscenza, dove cominciano ad abbattersi molti pregiudizi e tutte le paure inconsce, dovute a falsi stereotipi, via via scompaiono. Addirittura persone che pensavano di essere xenofobe con il trascorrere del tempo instaurano rapporti positivi con stranieri, a tal punto da diventare anche amici intimi.
La solidarietà e l’aiuto reciproco per qualsiasi tipo di questione sono la riprova di questo processo di formazione di una comunità a tutti gli effetti; ad esempio, le persone che parlano italiano aiutano le persone che non sono in grado di scrivere i vari moduli che si devono compilare quotidianamente per essere autorizzati ad ottenere qualsiasi cosa. Frequentemente ci si scambia anche il cibo che si cucina oppure si mangia insieme.
Per vivere in pace all’interno di posti simili bisogna per forza cercare di essere rispettosi e tolleranti nei confronti dell’altro, ma soprattutto non bisogna avere una superiorità morale e culturale di fronte alle altre culture ed etnie.
Igli Meta
La solidarietà di un mosaico umano
Quando sono entrato nel carcere della Dozza, pensavo che la mia vita fosse finita. Mi ero immaginato la prigione come un abisso di solitudine e disperazione, un luogo dove l'umanità veniva dimenticata e la diversità era un motivo di divisione. Eppure, tra queste mura, ho scoperto una realtà ben diversa, una lezione che mai avrei pensato di apprendere.
La diversità qui è palpabile, tangibile in ogni momento della giornata. Siamo un mosaico umano composto da storie diverse, culture diverse, errori diversi. All'inizio, questa diversità sembrava solo amplificare la mia sensazione di isolamento. Poi, gradualmente, ho iniziato a vedere oltre. Ho incontrato tante persone provenienti da un contesto culturale completamente diverso dal mio. La nostra amicizia non è stata immediata; ci sono voluti mesi per abbattere i muri di diffidenza e pregiudizio. Ma quando ciò è avvenuto, abbiamo scoperto in noi una profonda solidarietà, nata dalla condivisione della stessa difficile esperienza.
In questo luogo, ho imparato che la solidarietà non conosce barriere. Abbiamo tutti perso qualcosa di irrecuperabile - la nostra libertà - e questa perdita ci unisce in modi che non avrei mai immaginato. Abbiamo imparato a sostenerci a vicenda, a condividere le nostre speranze e paure, a trovare conforto nelle nostre differenze piuttosto che lasciare che ci dividano.
Nel momento di disperazione per la prematura scomparsa di mia figlia ho trovato spalle su cui poter piangere e condividere il dolore. La diversità, qui, diventa un punto di forza. Ci insegna la tolleranza, ci apre gli occhi su realtà che non avremmo mai considerato. Attraverso il dialogo e la condivisione, scopriamo che, al di là delle nostre differenze, ci sono valori umani universali: la ricerca di significato, il bisogno di affetto, la speranza in un futuro migliore.
Questo percorso di crescita personale non è stato facile, né è completo. Ogni giorno è una lotta per mantenere viva quella scintilla di umanità in un luogo che sembra progettato per soffocarla. Ma è proprio questa lotta che ci unisce, che ci fa comprendere che, nonostante tutto, siamo ancora esseri umani capaci di empatia, di amore, di cambiamento.
La lezione più grande che ho appreso in carcere è che l'unità nella diversità non è un'utopia, ma una realtà viva e respirante. È una forza che ci permette di affrontare le giornate più buie, di immaginare un futuro in cui, anche al di fuori di queste mura, possiamo riconoscerci e rispettarci per quello che siamo: esseri umani, uniti anche se diversi.
Athos Vitali