Finché non accada

 

Intrecci di felicità e libertà da sgranare nel percorso di vita

 

di Giovanni Salonia

frate cappuccino, psicologo e psicoterapeuta

 

Image 049Le domande che nascono

 

Felicità e libertà sono due parole magiche. Fanno sognare perché conservano sempre un intimo, inesauribile fascino. Attraggono sempre e chiunque. Quante fatiche, quante lotte alla ricerca della libertà o alla ricerca della felicità!

La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America ha introdotto addirittura la felicità tra gli scopi del vivere insieme: «Noi riteniamo che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità».

Felicità e libertà sono due parole che si intercettano, si rincorrono, si accarezzano, si separano. “Frequentandole”, emergono delle domande precise e puntuali: è possibile essere felici senza essere liberi? Si dà libertà senza felicità? Se fossimo costretti a scegliere, quale delle due sceglieremmo?

Di primo acchito, sembrerebbe che l’essere liberi non includa l’essere felici e che, al contrario, si possa essere felici anche senza essere liberi. Ma bisognerebbe anche chiarire di quale libertà stiamo parlando e sulla felicità - che, tuttavia, sembra di più immediata percezione - dirimere qualcuno degli equivoci cui essa si presta: non c’è, forse, chi si sente felice perché ha ucciso il nemico e chi sente felice per aver accettato di morire per il nemico?

Ripartiamo allora da quell’explicatio terminorum (liberamente tradotto: di che stiamo parlando?) che, sin dal Medioevo, era di ogni discorrere l’elementare premessa e su cui oggi spesso “casca l’asino” (P. Cantù): in una cultura che rischia il disfacimento della grammatica e della sintassi (anche esse diventate liquide!), non chiarire l’accezione specifica dei termini significa, infatti, scivolare su conflitti inutili e facili derive autoreferenziali.

Iniziamo il nostro itinerario semantico dalla parola “felicità”. L’affermazione «mi sento felice» sembra non prestarsi ad alcun equivoco. Parafrasando Tolstoj, ci sono molti modi di essere infelici, ma un solo modo per essere felici. Tutti coloro che dicono di essere felici esprimono un preciso stato d’animo: la sensazione di sentirsi ok, di sentire il corpo aperto e pieno e di poter/dover esclamare «finalmente!».

 

La storiella del tappeto

 

Ma… forse non è proprio così. La storiella “del tappeto” ci lascia intuire possibili equivoci anche nell’esperienza della felicità. Un povero, all’amico che gli rimprovera di aver venduto un tappeto prezioso (bottino di guerra) al modico prezzo di cento denari, risponde sconvolto: «Ma esiste un numero più grande di cento?». Il nucleo problematico dell’esperienza della felicità è proprio quello di essere chiara sensazione di pienezza, ma sempre commisurata al… recipiente. È vero che la definizione di “pieno” si addice in egual misura al bicchiere e alla botte quando entrambi sono ricolmi d’acqua, ma per l’uomo non è così: nell’animo umano è presente (e, direi, ineliminabile per tutti) il rischio di auto-illudersi, per cui quella che ieri avvertivo come “pienezza” può risultarmi oggi (se si incontra l’amico giusto!) distorta o ridotta.

Parliamo, allora, di come far fronte a questo rischio sempre presente nel cuore umano. Ascoltare in modo accurato, paziente e rispettoso il proprio cuore o, meglio, il proprio corpo (ormai sembra condiviso che è questo il nostro inconscio, ossia lo straniero-a-noi-stessi) diventa oggi un apprendimento indispensabile in una società centrata sull’individuo, che rischia l’impoverimento estremo di un’autoreferenzialità vuota e senza confronto. Non è un caso che Gesù di Nazareth si sia presentato come proposta di quello che verrà oggi definito un “più d’essere”: «Sono venuto perché abbiate la vita, e l’abbiate in sovrabbondanza» (Gv 10,10) e, in modo analogo, «Vi dico queste cose perché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Il messaggio è chiaro: esiste un numero più alto di cento, ed io vi propongo di scoprirlo!

La felicità, dunque, diventa cammino: soltanto la proposta di una pienezza più grande può liberarci dall’attaccamento ingenuo ai cento denari o - fuor di metafora - al frammento di felicità raggiunto.

 

Image 060Il ventaglio delle possibilità

 

Ed ecco che parlare di felicità ci ha portato al termine “libertà”: sembra che per percorrere i sentieri progressivi della felicità sia necessario essere liberi.

Ma cosa si intende per libertà? Non è facile rispondere perché la parola libertà apre un ventaglio ampio di significati. La polisemia del termine viene espressa in giochi linguistici che si distendono come fasi progressive della pienezza della libertà: essere “liberi-da”, “liberi-di”, “liberi-per”, “liberi-con”.

Innanzitutto - come cammino di liberazione - essere “liberi-da”: e qui si aprono due strade. La liberazione da ogni schiavitù fisica o economica e la liberazione da dipendenze psicologiche. La distinzione è un vero e decisivo spartiacque. Si può, infatti, essere schiavi fisicamente ed essere felici: si pensi alla gioia di Etty Hillesum nel campo di concentramento, alla pienezza di felicità di Nino Baglieri, per cinquant’anni immobile in un letto. Ma non si può essere felici se si è schiavi da dipendenze psicologiche. Come dire che la libertà ingrediente della felicità è la libertà dell’anima, che rimane sempre possibile nonostante le schiavitù del corpo. Diceva V. Frankl (parlando della sua serenità ad Auschwitz): il nemico può toglierti la vita, ma non la libertà di decidere il senso della tua morte.

Liberi nell’anima per poter essere “liberi-di” dare un senso, avere un sogno, creare una vita o un’opera d’arte, costruire una comunità… Chi è libero dalle schiavitù interiori - ossia privo di un ossessivo essere dipendente, controdipendente (accusare gli altri), indipendente (autoreferenzialità) - può incamminarsi per le strade della felicità.

Non è facile raggiungere questo livello di libertà: senza umiltà e senza confronto siamo portati a concludere che la nostra prospettiva sia l’unica (non può esistere un numero più grande di cento!) e che tutte le cose (materiali o simboliche) cui ci attacchiamo siano indispensabili (si pensi alle lezioni sulla sobrietà di N. Bobbio e alle infinite silenziose dipendenze della nostra fragile autostima). Agostino d’Ippona insinuava che, se una persona è legata ad un albero con una cordicella lunga dieci metri, si accorgerà di essere schiava solo quando vorrà allontanarsi di un centimetro di più. La libertà - questa libertà da “modelli immaturi di relazionarsi all’altro” - è la garanzia sicura di essere sulla buona strada nella ricerca della felicità.

E quando la “libertà-da” è genuina, diventa inesorabilmente “libertà-per” e “libertà-con”, ossia libertà di vivere in pienezza la vocazione umana.

A questo punto possiamo cominciare a ipotizzare che la felicità accada in un corpo i cui piedi percorrono cammini di liberazione e che la felicità si apre a nuove pienezze quanto più si diventa “liberi-da”.

Domanda finale: e se, pur essendo in cammino verso la liberazione, la felicità non accade?

Aspettiamo: siamo già nei dintorni. Se la strada è giusta, la felicità accadrà… e tornerà ad accadere!

Dell’Autore segnaliamo:

Sulla felicità e dintorni. Tra corpo, tempo e parola

Argo, Ragusa 2004, pp. 208