Tra il dire e il fare c’è di mezzo il potere
Credere nel futuro dei ragazzi con disabilità, perché questo si possa realizzare
di Nicoletta Balzaretti
docente disciplinare nella scuola secondaria di secondo grado e specializzata nel sostegno
A livello internazionale l’Italia può essere annoverata tra i Paesi che, nella storia della scuola, hanno assunto la prospettiva di un’educazione per tutti e di tutti sin dal lontano 1977, quando con la Legge n. 517 venivano abolite le cosiddette “classi speciali” per alunni con handicap e da allora i medesimi possono aver accesso alle “classi normali”, inizialmente nelle scuole elementari e medie inferiori.
Un passaggio culturale importante, che ha determinato un’attenzione particolare per coloro che, in contesto francofono, venivano chiamati “gli idioti” (cfr. studi di medici quali Séguin o Itard ed il tentativo di educare il famoso “ragazzo selvaggio” rappresentato nella pellicola cinematografica di Truffaut, 1970).
Prima del 1977 bambine e bambini con deficit cognitivi e sensoriali potevano frequentare quelle che in alcuni documenti erano denominate “classi speciali per fanciulli deficienti”, contesti di accoglienza indifferenziata rivolte, oltre a specifiche disabilità intellettive e/o fisiche, anche ad alunni provenienti da regioni italiane con livelli di alfabetizzazione e consapevolezza culturale differenti.
Quindici anni dopo, nel 1992, viene emanata la “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, meglio conosciuta come Legge 104/92. Si dichiara e promuove a pieno titolo l’integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società, sottolineando il diritto alla partecipazione effettiva di coloro che presentano diverse forme di disabilità.
Rimuovere gli ostacoli
A scuola, essere inseriti in una classe non significa una “semplice presenza”, un banco vicino a coetanei bensì aver diritto a personale qualificato e specializzato - insegnanti di sostegno e operatori educativo-assistenziali - poter partecipare alle attività didattiche in forme e modalità che rispettino le proprie caratteristiche di pensiero e azione.
Dalle bambine e dai bambini che frequentano l’asilo nido ai giovani della scuola secondaria di secondo grado, coloro che presentano una disabilità ai sensi della Legge 104/92 hanno pieno diritto, come tutti i coetanei, ad un percorso di apprendimento a scuola, con il supporto di insegnanti di sostegno assegnati all’intera classe, secondo strategie didattiche che promuovano il lavoro a piccoli gruppi ovvero il confronto con i compagni di classe, il rispetto delle loro abilità o limiti e valorizzino ciò che sono oltre ciò che sanno fare. Se, per esempio, un bambino riconosce le sillabe ma non sa scrivere utilizzando penna e matita, perché non utilizzare una tastiera di computer o valorizzare la lingua parlata?
Numerosi sono e saranno gli apporti che le tecnologie, ma soprattutto le menti inclusive degli insegnanti e della cultura che si vive a scuola, potranno fare per facilitare il reale benessere e l’effettiva partecipazione degli studenti con disabilità a scuola, rimuovendo ciò che nei recenti modelli di riferimento sono chiamati “ostacoli” di contesto, dalle più evidenti barriere architettoniche alle più latenti barriere culturali.
È la dimensione culturale la sfida più urgente: più che il fare quotidiano, l’accoglienza nelle classi ormai “normali” – sebbene esistano ancor oggi in alcune città, soprattutto al Nord d’Italia, esperienze di percorsi speciali – la creazione dei materiali e delle attività, più ampia partecipazione di tutti, la convinzione relativa al poter educare tutti, poter dare un senso alla vita di ciascuno supportando direzioni verso l’autonomia è ciò che ancora rimane una riflessione individuale.
Alcune criticità
Ci sono, è innegabile per chi vive la scuola non solo come un “mestiere”, altre criticità, proviamo ad esplorarle in chiave costruttiva.
In primo luogo, lavorare in classi eterogenee, in presenza di disabilità o altri bisogni educativi speciali, richiede una scelta: non può essere un lavoro “di ripiego”, una “messa alla prova” di se stessi. I bambini, i ragazzi, richiedono intenzionalità pedagogica, adulti che offrano modelli e direzioni educative, che sappiano valorizzare le risorse (anche quando, all’apparenza, non se ne osservano molte) e provare ad abbattere ciò che limita il diritto ad avere un’educazione adeguata. Insegnanti curricolari – ovvero docenti di diverse discipline – e insegnanti specializzati sul sostegno dovrebbero impegnarsi in un continuo aggiornamento, rispetto alla normativa in continua evoluzione, alla ricerca psico-pedagogica e didattica, alla riflessione insieme sul valore della valutazione, anche per gli alunni più deboli. Condurre una costruzione di consapevolezza del percorso formativo che propongono ogni giorno in classe, senza improvvisare alcuna lezione ma sapendo – sembra quasi contradditorio – l’emergenza e l’imprevisto.
La formazione continua, non solo prima di entrare in classe ma durante tutti gli anni di insegnamento, può essere una soluzione? Forse. Il dibattito, a livello sindacale e non solo, è aperto, in particolare rispetto all’obbligatorietà della medesima: come può un corso di formazione “imposto” – per esempio su come insegnare la matematica in modo nuovo - avere effettivi risultati, se i docenti non si mettono in discussione e confrontano?
Una seconda criticità, forse più logistico-organizzativa ma ad alto impatto (non) motivazionale per coloro che lavorano nella scuola per tutti: le classi molto numerose – anche in presenza di studenti con disabilità, talvolta più di uno per sezione – il rapporto insegnanti/studenti disabili che tende ad essere pari o maggiore di un docente ogni tre/quattro studenti; il rapporto sistematico da mantenere con tutti i soggetti (famiglia in primis ma anche referenti clinici, educatori e/o operatori che lavorano nell’extrascuola), per cui talvolta manca una sorta di “visione globale” per progetto di vita del bambino o del ragazzo con disabilità.
Sembra ci sia una parcellizzazione della persona: i medici, per competenza, valutano e rimarcano la dimensione clinica; la famiglia la gestione del quotidiano, la scuola gli apprendimenti (valutazione – ahimè – in primo piano). Se ci si fermasse attorno ad un tavolo, nuovamente nell’ottica di un confronto razionale sulla persona umana, forse tutti i pezzetti del puzzle potrebbero ricostruire un’unità dotata di senso. Ma non ci sono i tempi, gli spazi e, forse, nemmeno la motivazione al confronto.
Essere più che sapere
Infine, raggruppando alcuni nodi sui quali la scuola dovrebbe rileggere con uno sguardo storico i passaggi normativo-culturali che caratterizzano il nostro Paese, si rileva spesso la mancanza di continuità tra ordini di scuola. Se non ci sono prerequisiti consolidati, ci insegna la famosa Maria Montessori, che nel 1907 fonda in un quartiere popolare di Roma la prima “Casa dei bambini” scommettendo sull’educazione di bambini provenienti da contesti familiari molto poveri, non si può costruire nulla di nuovo.
Ci sono bambini che, per esempio, sono supportati nella scuola dell’infanzia ad acquisire abilità quali saper mangiare e vestirsi da soli – calzini e lacci delle scarpe a parte, talvolta nemmeno i dodicenni ci riescono! – piuttosto che saper esprimere le proprie emozioni e cercare di gestirle. Passaggio alla primaria – cambio insegnanti, si lavora solo sugli apprendimenti: imparare a leggere e a scrivere, poi a fare di conto. E le autonomie passano in secondo piano. Dubbio amletico: si può giudicare se è più importante, da adulti, ciò che so o ciò che sono? O sono due dimensioni necessariamente correlate e non distinte?
I bambini e i ragazzi con disabilità possono crescere e possono diventare adulti in una società che crede, in primo luogo, nella stessa possibilità. Altrimenti si avranno solo forme di integrazione o inclusione che seguono buoni propositi ma non mettono effettivamente al centro la persona stessa.
La Legge 104/92 e la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (2006, ratificata dall’Italia nel 2009) rimangono i cardini della nostra cultura: il passaggio “dal dire al fare” rimane una responsabilità ed un impegno di tutti, educatori e non, cittadini di questo mondo.
Per approfondire consigliamo il volume:
Pier Luigi Dini
Classi differenziali e scuole speciali: ordinamento italiano e cenni di legislazione comparata
Armando, Roma 1966, pp. 130