Con dolore e con amore
Il nostro corpo ci insegna a vederci specchiati negli occhi del diverso
di Chiara Gatti
formatrice e mediatrice sociale
Certamente ogni epoca ha avuto le sue categorie di “diversità”, a partire proprio dal concetto di identità individuale e sociale.
Se infatti so chi sono, allora so anche chi è diverso da me ed è possibile che cominci a temerlo. Ma se guardiamo al tempo che stiamo vivendo, ci accorgiamo che il vero dramma è più a monte e consiste proprio nel non sapere più bene chi siamo, mettendo inevitabilmente in crisi anche la possibilità di concepire l’alterità.
È come se l’altro fosse spesso da temere, divenendo il più delle volte incomprensibile, in quanto mi rimanda a parti di me che come essere umano non riconosco più nel mio corredo esperienziale e, relazionale. Questa consapevolezza ritengo sia cambiata proprio a partire dagli ultimi anni e se solo pensiamo alla generazione prima della nostra o ancora di più a quella degli adulti di oggi a confronto con quella degli adolescenti, ci rendiamo conto che la consapevolezza di chi si è cambia profondamente proprio a partire dalle paure che si nutrono e dai tabù vissuti. Il discorso è certamente ampio e non esauribile in questo contesto, ma, per provare a capire qualcosa di più, potremmo assumere due “classiche” paure diffuse dal pregiudizio consolidato: la paura di chi vive un diverso orientamento sessuale e la paura dello straniero e/o immigrato. Inoltre, per tentare di fare un’analisi il più possibile attendibile, occorre riferirsi solo ad una determinata fascia d’età, scegliendo appunto quella dei giovani, di coloro che, come dicevamo, definiamo ancora adolescenti.
L’identità di genere
Prendiamo ad esempio la tanto dibattuta dimensione dell’identità di genere, oggi così legata alla teoria gender: mettiamola a confronto con la vita di un sessantenne o cinquantenne di oggi, e al bagaglio dei suoi vissuti ed esperienze giovanili, dove poteva aver senso parlare di “paura dell’omosessuale” in quanto visto come diverso e imbarazzante. Oggi, se frequentiamo un po’ i nostri giovani, ci rendiamo conto che è addirittura ridicolo parlare di paura di scoprirsi o accettare un omosessuale, in quanto la fluidità sessuale può spesso passare dall’essere “etero”, “omo”, o addirittura “fluido” appunto, secondo l’idea della “sexual fluidity”, o fluidità sessuale, teorizzata dalla psicologa e docente universitaria dello Utah Lisa Diamond, nel 2008. Per un ragazzo di oggi, l’orientamento sessuale può essere qualcosa di plastico, e variabile, come potrebbe essere quello di aver voglia o meno di studiare, di essere più o meno amante dei viaggi, di praticare certi sport oppure non considerarli affatto… Una categoria tra le altre che, lungi dallo scandalizzare, si colloca tra le caratterizzazioni di un’identità, questa sì davvero fluida ed evanescente o, meglio, spesso non accettabile solo perché non conoscibile o comprensibile.
In fondo, tutta la tematica della definizione dell’orientamento sessuale ha profondamente a che fare con quella del percepire il proprio corpo, comprenderne i gusti, ascoltarne le sensazioni che generano spesso emozioni non più riconoscibili e quindi difficilmente elaborabili in sentimenti stabili. Il non sapersi ascoltare, nella propria fisicità, genera quindi una serie infinita di conseguenze come quella di avere spesso un’identità virtuale, modificata da filtri, o annullata in avatar e meme recuperati online, la quale si allontana sempre più dall’aspetto morfologico reale che il ragazzo o la ragazza hanno e spesso non riconoscono nemmeno più allo specchio. O meglio: piace di più quello che si è creato virtualmente, ma che purtroppo realmente non esiste, con tutti gli annessi e connessi di una relazionalità filtrata. Di quale paura del diverso possiamo dunque ancora realisticamente parlare?
La paura dello straniero
Proviamo a vedere un altro esempio: la cosiddetta paura dello straniero o dell’immigrato. Se entriamo in una classe delle scuole medie superiori o in un’aula universitaria, oppure passiamo a fianco di un gruppo di ragazzi che scherza e ride davanti a un locale, oppure passeggiamo nelle nostre città all’ora della movida, ci accorgiamo che l’idea dell’altro come diverso in quanto straniero è veramente ormai poco attendibile, anche perché la presenza di una multi-etnicità è così dirompente da far sentire fuori luogo chiunque ancora voglia parlare di “estraneità razziale”. Allora, con questo assunto, dovremmo sostenere che il bullismo nei confronti di ragazzi di diversi paesi, oppure un razzismo giovanile, non esista?
Sarebbe bello poterlo credere ed affermare, ma l’esperienza afferma decisamente il contrario. Eppure, sono certa, la matrice non è più quella sorta di pregiudizio razziale e paura di essere spodestati nel privilegio di una “razza bianca” dominante, che caratterizzava i pensieri e i comportamenti delle generazioni precedenti. I ragazzi di oggi non hanno più nessuna certezza della propria posizione occidentale privilegiata, non hanno sicurezza sul loro futuro che riguardi un bel conto in banca, un luogo preferito in cui vorrebbero vivere, un impiego futuro all’altezza del benessere dei propri genitori, una certezza sulle sorti dell’ambiente che li circonda e che ogni giorno si dimostra sempre più fragile e deteriorato. Allora perché sono razzisti ed intolleranti verso gli altri, avvertiti comunque diversi?
È nuovamente quella drammatica distanza dal proprio corpo, ormai desensibilizzato, che manda segnali non più decodificabili, per cui i pensieri si slegano dalle azioni e dalle sensazioni come schegge impazzite, e diventa così possibile “perseguitare” l’altro che potenzialmente può essere tutto quello che io temo di diventare, o sono già diventato senza saperlo. Dimenticando che solo la possibilità di rimanere in ascolto profondo dei segnali del nostro corpo ci rende in grado di riconoscerli armonicamente nei nostri simili, perché tutti attingiamo ad un collettivo patrimonio antropologico e valoriale che ci avvicina, prima di tutto in quanto esseri umani.
Giuseppe e i suoi fratelli
Questa comunanza trascurata, ma tanto inscritta nei corpi, questa fratellanza universale che va ben oltre ogni credo religioso, penso emerga luminosamente in un passo affascinante di un romanzo del grande scrittore tedesco Thomas Mann, meraviglioso cantore della sofferenza patita nella paura della diversità.
Nel suo romanzo “Giuseppe e i suoi fratelli”, si ispira liberamente alla vicenda biblica di Giuseppe, dei suoi fratelli e del padre Giacobbe narrata nel libro della Genesi. Modificando leggermente la storia del testo biblico dove al vecchio padre Giacobbe sono i fratelli che narrano il fatto che Giuseppe sia ancora vivo e sia il funzionario egiziano che si è rivelato a loro, fa incontrare direttamente il vecchio padre e il figlio rivestito ancora con le vesti da egiziano e ai suoi occhi irriconoscibile. Ascoltiamo quindi come in questa intuizione luminosa, anche se romanzata, la matrice del riconoscimento abbatta la paura di incontrare lo straniero egiziano, di cui tanto gli altri figli gli hanno parlato:
«“Chi è quell’uomo di media corporatura”, domandò Giacobbe, “vestito nell’eleganza di questo mondo?”. “Babbo, è il tuo figlio Giuseppe”, rispose Giuda. Con dolore e con amore guardò a lungo, intensamente, il volto dell’egiziano e non lo riconobbe. Accadde però che gli occhi di Giuseppe, per il lungo guardare, si riempirono di lacrime che gli scorrevano giù per le gote; e quando il nero degli occhi fu tutto molle di pianto, ecco, quelli erano gli occhi di Rachele».
Come poter riconoscere un figlio perduto da anni con immenso dolore e ora quasi del tutto trasformato in un egiziano ricco e potente da temere? Solo ascoltando il proprio corpo: è infatti nello sguardo inumidito del figlio che il padre può rivedere gli occhi tanto amati della moglie, madre di quell’uomo che fino al momento prima non riconosceva. Giacobbe dunque, affidandosi ai suoi sensi, alla forza che gli fa prepotentemente scoprire il suo corpo, non ha ritrovato solo un figlio, ma anche un uomo che gli diventa fratello nel comune sentire di una profonda commozione.