La felicità che sta in piedi da sola

In povertà ed umiltà, accontentarsi è il verbo francescano della felicità

di Dino Dozzi 

Image 043Né denaro, né potere, né bellezza

«Chi si accontenta gode», dice il proverbio. Che sia vero lo dice l’esperienza e lo rivela la stessa etimologia del verbo che contiene l’aggettivo “contento”; la controprova viene dall’opposto: chi non è capace di accontentarsi non sarà mai contento-felice.

Fortunatamente si incontrano persone felici, raramente tra i ricchi e i potenti, più frequentemente tra le persone normali, a volte anche tra i poveri e i malati. La felicità non pare legata alla quantità di soldi che si ha (in questi tempi di crisi l’affermazione suscita qualche dubbio), né al potere che si esercita, né alla bellezza di cui si gode, né alla stima o all’amore di cui si è oggetto, e neppure alla salute; anche se tutto questo male non farebbe. La felicità dipende soprattutto dal saper accontentarsi, un verbo povero, un verbo francescano.

Negli scritti di san Francesco lo troviamo due volte in contesti molto significativi. La prima volta è all’inizio del capitolo IX della Regola non bollata: «Tutti i frati si impegnino a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che di tutto il mondo, come dice l’Apostolo, noi non dobbiamo avere nient’altro, se non il cibo e l’occorrente per vestirci e di questo ci dobbiamo accontentare. E devono essere lieti quando vivono tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada» (Rnb IX,1-2: FF 29-30). La citazione paolina è da 1Tm 6,8: «Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, accontentiamoci».

La seconda volta in cui troviamo il verbo “accontentarsi” è nel Testamento, lo scritto che viene definito da Francesco stesso «un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento», per spronare i frati a vivere la Regola nella Chiesa, tenendo presente il carisma delle origini: «E quelli che venivano per intraprendere questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevamo avere di più» (Test 16-17: FF 117).

In entrambi i contesti l’accontentarsi è legato all’umiltà e alla povertà di Gesù, alla cui sequela si pongono i frati. In modo esplicito nella Regola; in modo implicito, ma rafforzato dal carisma delle origini, nel Testamento. Il richiamo alle origini, in verità, c’è anche nella Regola: subito dopo l’espressione «di questo ci dobbiamo accontentare» (del cibo e dell’occorrente per vestirci), ecco quel «e devono essere lieti», che va spiegato. Come si fa a imporre “il dovere” di essere felici? Francesco si basa sulla sua esperienza iniziale: «Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo» (Test 1-3: FF 110). Francesco sembra dire: «Fidatevi, io ho fatto l’esperienza del vivere tra i poveri e tra i lebbrosi; inizialmente si fa fatica, ma poi diventa dolce, bello, gioioso». I frati devono essere lieti vivendo tra gli ultimi, perché questa gioia è il riscontro interiore della scelta fatta alla sequela dell’umiltà e della povertà di Gesù.

Le due sorelle

Non è per caso che si parla di “umiltà e povertà”. Nei vangeli non è tanto la povertà di Gesù che viene sottolineata, quanto piuttosto la sua umiltà, quel “mettere tra parentesi” la sua divinità, per farsi uomo, obbediente fino alla morte di croce, solidale con la nostra creaturalità e con la nostra miseria (cf. Fil 2,6-11). L’umiltà è atteggiamento più intimo, più profondo e prioritario, l’unico terreno nel quale può nascere e crescere la pianticella della povertà, anzi l’unico terreno nel quale possono nascere e vivere tutte le virtù. E l’unico terreno nel quale può fiorire la felicità. Anche nel “Saluto alle virtù” Francesco ricorda insieme le due sorelle: «Signora santa povertà, il Signore ti salvi con tua sorella, la santa umiltà» (Salvir 2: FF 256). La povertà da sola è dura e può facilmente portare alla chiusura acida o al disprezzo orgoglioso degli altri; se accompagnata dall’umiltà diventa solidale, misericordiosa e gioiosa.

“Accontentarsi” di quello che si ha include anche la salute. Nel capitolo X della Rnb Francesco scrive: «Prego il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore; e quale lo vuole il Signore, tale desideri di essere, sia sano che malato» (FF 35). Qui il collegamento tra l’accontentarsi e la felicità è esplicito e profondo, mediato dal desiderio di accogliere pienamente la volontà del Signore ed espresso nell’invito eroico a ringraziare sempre e comunque il Creatore.

Image 045Accontentarsi di ciò che esiste

“Accontentarsi” legato alla felicità, oltre che verbo povero, può sembrare anche verbo passivamente rinunciatario. Per coglierne la profondità, bisogna rileggere quella pagina straordinaria chiamata “della vera e perfetta letizia”. Ciò che conta davvero nella vita e ciò che dà vera felicità, dice Francesco con quella parabola, non sono le gratificazioni derivanti dal potere della cultura, non sono quelle derivanti dal potere ecclesiastico e politico e neppure i risultati apostolici e il potere evangelico. La cosa davvero importante e quella che, sola, può essere definita vera letizia è restare serenamente e fraternamente davanti alla porta che simboleggia l’accoglienza dell’altro. Una porta che resta chiusa e dalla quale arrivano i «Vattene» con motivazioni sempre più dure: non ho tempo per te, sei inutile e insignificante per me, sei di peso. Restare di fronte a quella porta che non si apre con sentimenti fraterni, «in questo è vera letizia, vera virtù e la salvezza dell’anima». Questa è una felicità che non dipende dalla reciprocità, che sta in piedi da sola, che costruisce un mondo più bello. Una felicità che sa accontentarsi di ciò che esiste, accogliendolo con gratitudine.

È quanto Francesco dice anche a quel Ministro che gli aveva chiesto di potersi ritirare in un eremo, perché riteneva che i rapporti con gli altri frati gli impedissero «di amare il Signore Iddio» (FF 234): «Non aspettarti da loro altro se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori». Acconténtati, gli altri vanno bene come sono. In quello che gli altri ti danno devi saper vedere ciò che il Signore ti dà. Amali, non pretendere che siano migliori di come sono.

Accontentarsi: strana ricetta di felicità. Ma ricetta di uno, san Francesco, che di felicità vera si intendeva. Forse val la pena di verificare.