Ogni vigile urbano sa indicarti la strada per arrivare in centro. Nemmeno mille vigili urbani sanno dirti perché ci devi andare. Ogni religione, ogni tradizione culturale, ogni codice penale sanno dirti cosa sia bene e cosa sia male. Ma nemmeno tutte assieme sanno dirti perché fare il bene ed evitare il male. Soltanto dentro di te, nel tuo spirito, trovi i perché.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

Chi me lo fa fare?

Se Dio include chi ti rinchiude?

 DIETRO LE SBARRE

Preoccupazione sciò sciò

Il XXI secolo è definito spesso “il secolo della paura”. In carcere alla Dozza trovo un'enormità di persone vessate da tensioni, stress, preoccupazioni e timori.

Prendono sempre pillole, per liberarsi dalle paure e per calmare i nervi. C’è una grande differenza fra preoccuparsi e prendersi cura. Prenderci cura di qualcosa ci spinge all'azione; la preoccupazione invece blocca spirito e corpo, senza aiutarci a trovare una soluzione per i problemi. Preoccuparsi è uguale a far correre il motore di una macchina senza alzare la frizione, consumi carburante senza arrivare in nessun posto. Non c’è una medicina contro la preoccupazione.
Così, chiuso in pochi metri quadrati di cella, depresso e preoccupato, pensi alla potenza di Dio, pensi al dono della vita e riconosci che Lui può sicuramente prendersi cura di te. In quei momenti con gli occhi umidi di lacrime lo preghi affinché ti dia la serenità di accettare ciò che non si può cambiare, il coraggio di cambiare ciò che va cambiato e la sapienza di discernere fra l'uno e l'altro. Quando ho appreso della prematura scomparsa di mia figlia, nella mia umana limitatezza non mi rimaneva che accettare quell’evento tragico. Allora mi sono sforzato di esaminare il mio vissuto e la mia anima e ho trovato la medicina contro l'autocommiserazione: servire gli altri. Mi tornò alla mente un cartello che recitava «se non sei contento della strada della tua vita, costruisci una stazione di servizio». La migliore medicina che io conosca è quella di aiutare chi sta peggio di te. E il carcere è pieno di occasioni di questo tipo.
Fuori di qui si vive in modo frenetico, tutti corrono, sono stressati e pieni di preoccupazioni. Le tensioni incidono nel rapporto con gli altri, in politica guastano le relazioni internazionali e suscitano guerre. Le persone si preoccupano del domani portandone il peso oggi, così ogni giorno portano il peso di due giorni. E allora, come in carcere, anche fuori occorre semplicemente riacquisire la consapevolezza di essere figli di un Dio che si prende cura di noi.

ATHOS VITALI

 Lo spirito non è mai recluso

In un mondo come quello contemporaneo, pervaso dal materialismo della società capitalistica, l’anima è trascurata dalla maggioranza delle persone. Il barometro della spiritualità segna livelli più alti dentro al carcere che nella società libera. Alla persona detenuta rimangono poche distrazioni. Con l’ingresso in carcere il detenuto viene privato della propria libertà personale, dei propri affetti intimi e degli effetti personali (cellulare, portafoglio, braccialetti...).
Senza oggetti e senza affetti, da solo, in un luogo ostile, il detenuto, nei momenti di solitudine, comincia a farsi domande sulla propria vita, sul proprio reato e a porsi quesiti su questioni più profonde. Sono le domande dello spirito. Alcuni riprendono un cammino spirituale per qualche motivo interrotto, altri invece affrontano un’esperienza completamente nuova, molti si affidano alla religione per trovare pazienza e forza e superare le vicissitudini e difficoltà della detenzione.
A stimolare questo percorso religioso può essere un compagno del reparto, un volontario, i colloqui con gli assistenti religiosi (cappellano, pastore evangelico, un testimone di Geova, imam) oppure la frequentazione di testi sacri.
A partire da quest’anno nell’istituto penitenziario di Bologna c’è anche la possibilità di iscriversi alla Facoltà Teologica dell’Emili- Romagna per poter approfondire, anche con l’intelligenza delle scienze religiose, gli interrogativi dello spirito. Tutti, comunque, devono confrontarsi con credenti di fede diversa. Le frequenti discussioni in merito favoriscono il dialogo e il pensiero critico, perché permettono di considerare altri punti di vista. Le religioni sono portatrici di valori e virtù – trasversali e universali – di valenza anche civile, che possono favorire il percorso di rieducazione del reo e di risocializzazione nella comunità. Per questo l’ordinamento penitenziario, all’art.15, individua nella religione uno degli elementi del “trattamento” del condannato. La lettura delle scritture sacre riesce a dare al recluso serenità e pace interiore nei momenti di tristezza e depressione. È fonte di speranza poiché rassicura quanto al perdono, soprattutto quando il peso del proprio passato si fa umanamente insopportabile.
Nonostante la perdita della libertà personale, a sorprendere è che la fede in Dio riesca a dare ad alcuni reclusi una tranquillità e una libertà interiore tali da far affermare loro che, anche se ristretti, si sentono liberi dentro, perché la libertà non dipende dal fatto di essere o meno imprigionati, ma dal sentirsi bene con la propria anima e con sé stessi. Nessuno può rinchiudere lo spirito. Il rischio per tutti è escluderlo.

IGLI META

 Salvato nel nome di Sawswen

Quando sei privato della libertà, subisci profonde trasformazioni fisiche, morali e spirituali. Per molte persone l’ultima speranza di poter uscire dal carcere, o di potersi difendere da un sistema giudiziario ferocemente inquisitorio, viene rappresentata dal trovare aiuto in Dio, la cui parola forse non era stata presa troppo in considerazione in tempi di “vacche grasse”.
Coniugare un percorso spirituale con quello riabilitativo può rappresentare un’ottima base per ottenere quelle finalità di recupero sociale cui l’intera normativa penitenziaria sarebbe ispirata. Questa finalità però viene spesso sostituita da un’insopprimibile “ispirazione di vendetta”, che subiscono soprattutto i più dimenticati tra i detenuti: gli stranieri, le persone con fragilità psicologiche o affette da dipendenze. Persone che soffrono particolarmente le carenze strutturali del sistema carcerario italiano, tra cui svettano la sovrappopolazione e la mancanza di figure professionali.
Il cappellano resta uno e la professionalità dei criminologi e degli educatori viene minata dalle centinaia di detenuti che ognuno di loro deve seguire. Sono carenze di sistema che tra noi portano la recidiva media oltre il 70%, contro il 18% che si registra nei paesi nordici, dove il detenuto viene inteso non come corpo da tenere rinchiuso, ma come essere umano nella sua pienezza fisica, sociale e spirituale. Paesi decisamente secolarizzati, che pongono però grande attenzione al dialogo interreligioso. Chi scrive invece è l’unico italiano a non essere mai stato arrestato e detenuto in Libia da una polizia della morale coranica, al-Rada, oltretutto per via di un’imputazione italiana dalla quale sono poi stato pienamente scagionato. Nel carcere di Mitiga mi è stata salvata la vita da uno sconosciuto musulmano, Sammud, con il destino già segnato dalla Sharia.
Mentre stavo morendo di dissenteria, Sammud ha deciso di curarmi con le sue preziose medicine e di cedermi il suo posto vicino all’unica fonte d’aria di una cella di trentacinque metri quadrati che conteneva oltre cinquanta corpi, i quali sembravano fondersi tra loro in quella torrida estate libica. Mi ha sostituito nei micidiali turni che, per ovvie ragioni geometriche, costringevano gli ultimi arrivati ad alternare due ore in piedi e due ore sdraiati durante le ore notturne. Quando mi ripresi, mi disse che aveva scelto di aiutare me tra i tanti che aveva visto morire, perché nel delirio non invocavo Dio, bensì il nome di una donna, mia moglie Sawswen. Mi disse che quell’amore invocato mi avrebbe avvicinato a Dio più di tutti coloro che lo pregano pensando a se stessi.
Ho recentemente saputo che, grazie a un intervento delle Forze Speciali libiche, da anni in guerra contro le milizie integraliste come Rada, Sammud è stato uno dei prigionieri (molti dei quali migranti) che sono riusciti a fuggire dall’inferno di Mitiga.
Il pensiero dell’amore verso il prossimo può essere la base del cammino spirituale anche per chi, come Sammud, si ritrova in situazioni disperate e apparentemente senza via d’uscita.

GIULIO LOLLI