«Voi, in giovane età, non potete conoscere le paure in cui i vostri vecchi sono cresciuti. Quindi per favore aiutateli con la vostra giovinezza. Insegnate bene ai vostri genitori e l’inferno dei loro figli passerà lentamente. E nutriteli dei vostri sogni, quelli che loro scelgono, quelli che voi conoscete bene. Non chiedete loro mai perché: se te lo dicessero, piangereste. Quindi, guardateli e sospirate e sappiate che vi amano» (Crosby, Still, Nash & Young, Teach your children).

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Generazioni di fenomeni

Fenomeni di generazioni

 DIETRO LE SBARRE

Padre e figlio

Essere genitori è una grossa responsabilità educativa e di cura, compiti per i quali non esiste una preparazione specifica.

I genitori dovrebbero educare i figli al rispetto di sé e degli altri e offrire l’affettività necessaria al loro corretto sviluppo emotivo. Cercare un dialogo costante dovrebbe essere la bussola per orientare una vita familiare corretta, che dovrebbe portare a sintesi le diversità di vedute e l’accettazione reciproca dei punti di vista.
Ciò che è difficile fuori, diventa difficilissimo quando il rapporto padre-figlio si sviluppa dentro al parlatorio di un carcere. Il solo pensiero di avere un figlio privato della libertà personale negli anni più belli della sua maturazione ti fa già da solo crollare il mondo addosso. Ma un padre non può arrendersi, e alle evidenti fragilità del figlio dipendente da farmaci e sostanze stupefacenti, deve reagire con la speranza di poter ritagliare per lui, anche in carcere, il miglior percorso per attutire gli effetti desocializzanti della reclusione.
La battaglia che un padre può fare cercherà di garantire al figlio di poter continuare gli studi universitari già intrapresi in libertà e di svolgere attività sportiva per migliorare lo stato psicofisico. Ma, soprattutto, può lottare perché il carcere favorisca la cura degli affetti familiari, incentivando, e non privando il giovane di occasioni di incontro con i familiari.
Un papà è spesso impotente di fronte alla chiusura pregiudiziale del carcere che, piuttosto che alla risocializzazione del detenuto, tende sempre più spesso al rintontimento legale del giovane, con la somministrazione di psicofarmaci. Il reiterato e disperato appello di aiuto rivolto agli psicologi ed ai funzionari del SerD (Servizio per le dipendenze), per consentire al figlio di uscire dallo stato di dipendenza, viene puntualmente ignorato, e ciò a riprova di una negazione sistematica dei diritti e del diritto operata dall’Amministrazione penitenziaria.
Allora i sogni si trasformano in incubi, anche per la notizia del suicidio in carcere di un giovane detenuto con un residuo pena da scontare di 8 mesi, notizia che sottolinea l’inadeguatezza del sistema carcerario, insensibile alle grida di dolore e di preallarme che la mamma aveva lanciato per evitare che questa ennesima tragedia si consumasse. Questo è quanto succede e ciò non è tollerabile. In Italia si può privare una persona della libertà, ma non si può incarcerare il rapporto affettivo padre-figlio.

Giulio Lolli

 Zio e novizio

Il carcere della Dozza ospita circa 800 persone, di etnie, religioni ed età differenti. E’ un contenitore che obbliga i suoi ospiti ad una convivenza forzata. Questo aspetto impone che all’interno dell’istituzione si stabiliscano regole perché la vita dei reclusi funzioni senza sfociare in comportamenti deprecabili o prevaricazioni degli uni sugli altri.
Il rispetto è senz’altro lo strumento più importante perché i rapporti tra detenuti possano svilupparsi con serenità. Intendo rispetto anagrafico e rispetto del reato per il quale si sta espiando la pena. Il rispetto verso i più anziani si riscontra sia nel termine di “zio” con il quale vengono chiamati quelli che hanno i capelli sale e pepe, sia nelle pratiche quotidiane di pulizia della cella e di cucina, che vengono, generalmente e in maniera condivisa, assegnate ai più giovani.
Il rispetto verso il reato per il quale si sta scontando la pena e il tempo di carcerazione vissuto e ancora da vivere è un altro aspetto peculiare della vita carceraria. Infatti, al di là dell’età, entrano in gioco anche queste variabili che condizionano fortemente il percorso detentivo. Si tratta dell’esperienza vissuta da chi ha trascorso molti anni in branda e che è in grado di consigliare e guidare il “novizio” nel percorso all’interno delle mura. Gli anni di carcerazione, che i più anziani nella pena portano sulle spalle, costituiscono un bagaglio di conoscenze soprattutto nei rapporti con gli agenti di polizia penitenziaria, con l’area trattamentale e con il mondo del volontariato; ciò consente di muoversi più agevolmente all’interno del carcere e di conoscerne le dinamiche. I consigli sulla vita nell’Istituto e sulle regole del “codice carcerario” sono fondamentali per vivere la detenzione in tranquillità e sicuri di non commettere errori per ingenuità o sottovalutazione di elementi che nella realtà detentiva possono pesare anche molto sul percorso individuale.
L’atteggiamento dell’anziano nei confronti dei più giovani è quindi quello del “buon padre di famiglia”, che dispensa e dona incondizionatamente suggerimenti utili alla presa di coscienza del disvalore delle azioni compiute e supporta nel tracciare percorsi di vita alternativa futura. Quello che credo sia giusto sottolineare è che in carcere, per l’esperienza vissuta, non ho riscontrato “nonnismo”, che in altri ambienti, come quello militare, si manifesta con atti di scherno, insulti pesanti, scherzi balordi e insensati fino ad atti di gravità maggiore come atti di persecuzione, denigratori, discriminatori e di devastazione che minano la serenità psicofisica della vittima.
In carcere, al contrario, si recupera il valore del rispetto che, a differenza di quanto avviene nella società civile, è alla base dei rapporti interpersonali che si instaurano tra detenuti, tra detenuti ed agenti di polizia penitenziaria, tra detenuti e volontari. Ognuno consapevole del proprio ruolo, ma altrettanto cosciente di essere portatore di una dignità che mai va calpestata.

Fabrizio Pomes

 Cattivo esempio e buoni consigli

Durante le esperienze carcerarie fatte in giovane età mi è capitato di incontrare come compagni di sventura numerosi “anziani”. La qualifica di anziano in carcere si acquisisce molto più precocemente che in libertà. Infatti fuori consideriamo anziani quelli che hanno raggiunto i 60/70 anni, mentre in carcere già i quarantenni possono fregiarsi di tale appellativo.
Inizialmente come giovani si è portati ad ascoltare molto la parola dello “zio” o degli “zii” di turno, a credere a quasi tutto viene raccontato, e a far tesoro dei consigli che vengono ampiamente dispensati. Successivamente però si seleziona molto, sulla base del “pulpito” da cui provengono, e si analizza con maggiore attenzione lo spessore e la veridicità di quanto viene affermato. Per cui si tende sempre più ad attribuire il ruolo di mentore solo a coloro che riescono a dispensare in assoluta buona fede e gratuità consigli che possono realmente essere di esempio per gli altri.
Sempre più spesso infatti i dialoghi intergenerazionali hanno lo stesso ritornello e spesso si trascende in una retorica da bar sull’evidenziare come in carcere si stava meglio in passato quando c’era più rispetto tra i detenuti. Ma in più occasioni mi sono chiesto: come mai se le persone sono quasi sempre le stesse, il contesto carcerario è peggiorato?
In alcuni casi, fortunatamente sempre meno negli ultimi anni, il nonnismo e l’età avanzata viene utilizzata per caricare sui più giovani le incombenze quotidiane della cella, in genere i lavori più noiosi o faticosi. Quindi la valutazione che faccio è che occorre cercare di prendere il buono in ogni persona indipendentemente dall’età anagrafica, perché l’arricchimento personale lo costruisci con relazioni interpersonali sane. Se viene meno la potenzialità di trasferire esperienze e conoscenze allora è meglio, tanto in carcere quanto nella società libera, non prendere nulla né dal giovane né dall’anziano. Chissà perché, riflettendo sul tema, mi viene in mente che spesso “la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio”!

Alex Frongia