Un po’ di pane e tante storie

Dal libro del profeta Gioele, impariamo un linguaggio intergenerazionale

 di Lidia Maggi
teologa e pastora della Chiesa evangelica battista

 Quando pensiamo alla Pentecoste, ricordiamo la discesa dello Spirito sugli apostoli, insieme alla loro capacità di comunicare con tutti;

mentre rimuoviamo facilmente che quell’episodio ha riguardato la comunità tutta: uomini e donne, giovani e anziani. L’evento della Pentecoste, oltretutto, nel racconto degli Atti si ripete diverse volte, fino a coinvolgere i più lontani come Cornelio, il centurione romano. Dimenticare questo dato può impedire di cogliere che la Chiesa nascente, fin dagli albori, è prima di tutto una comunità intergenerazionale.

 La Chiesa è di tutti

Bambini e anziani, figli e figlie, fragili e vigorosi: la Chiesa che nasce a Pentecoste è una realtà capace di tenere insieme ogni rappresentante dell’umanità, uomini e donne diversi per stato sociale, culturale e anagrafico. Una chiesa dove manca una generazione particolare è una comunità amputata. Può vivere ugualmente senza l’arto assente, ma ne patirà la mancanza.
La Chiesa, a Pentecoste, si scopre come il luogo dove a tutte e tutti  è data la capacità di raccontare, con linguaggi differenti, le grandi meraviglie di Dio. Una comunità di proclamatori e proclamatrici di quella Parola che ha infiammato i cuori. I ruoli sociali, rigidi ovunque, in questa nuova realtà si rivelano così fluidi che gli anziani e i maestri possono ascoltare visioni, sogni e insegnamenti dai più giovani e persino dalle donne. Non a caso, Pietro, nel suo primo discorso alla gente di Gerusalemme, cita il profeta Gioele: «“Avverrà negli ultimi giorni”, dice Dio, “che io spanderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri giovani avranno delle visioni, e i vostri vecchi sogneranno dei sogni» (Atti 2,17).
Ciò che caratterizza il profeta Gioele è proprio la sua capacità di raccontare ai giovani e agli anziani. Fin dagli inizi si rivolge ad ogni fascia d’età della comunità; e lo stesso evento lo ripercorre adattandolo ai diversi interlocutori. Il profeta vuole fare memoria di un’esperienza di liberazione. Ma questa non ha a che vedere con i grandi eventi della storia della salvezza, come l’epopea dell’Esodo dove Dio, con braccio forte e potente, liberò gli schiavi dalla morsa mortale del faraone. Anche quell’esperienza ha riguardato il popolo tutto: uomini, donne, anziani e bambini. Gioele, però, racconta una carestia causata dall’invasione di cavallette. Un evento legato alla vita contadina, una delle tante calamità naturali che vede la perdita del raccolto. Egli fa memoria di come Dio abbia liberato la campagna da questa infestazione, permettendo alla vita di riprendere il suo corso. Tutto il libro ruota intorno a questo singolo evento: le cavallette hanno invaso e distrutto l’intero raccolto, ma Dio ha permesso al popolo di non morire di fame.
Che cosa ha a che vedere tutto ciò con la comunità intergenerazionale: con giovani e vecchi, figli e figlie? Il legame è proprio con quella profezia dello Spirito di Dio sparso su ogni rappresentante della comunità. Per Gioele tutte e tutti devono poter ascoltare le meraviglie di Dio per poi poterle a loro volta raccontare: «Udite questo, o vecchi! Porgete orecchio, voi tutti abitanti del paese! È mai avvenuta una cosa simile ai giorni vostri o ai giorni dei vostri padri? Raccontatelo ai vostri figli, e i vostri figli ai loro figli, e i loro figli alla generazione successiva!» (1,1-2)
La comunicazione della fede passa attraverso questa esperienza del raccontare. Possono essere le grandi liberazioni della storia di Israele, come le piccole esperienze personali. Ma come trasformare una comunità di gente semplice in un popolo di proclamatori delle meraviglie di Dio? Accanto all’ingrediente dello Spirito di Dio, che rigenera e rinnova la vita, Gioele mette in campo una pedagogia: insegna l’arte di farsi comprendere da tutti, adeguando il proprio linguaggio ai diversi interlocutori.

 Una parola per ciascuno

E così, con i bambini e le bambine il linguaggio ha le sonorità della filastrocca, da ricordare a memoria per poter essere ripetuta: «L’avanzo lasciato dal bruco l’ha mangiato il grillo; l’avanzo lasciato dal grillo l’ha mangiato la cavalletta; l’avanzo lasciato dalla cavalletta, l’ha mangiato la locusta». Le canzoni che Israele canta, a tavola, celebrando la Pasqua, hanno lo stesso ritmo: “Alla fiera dell’est un topolino”, “La pecora nel bosco”, “Chi sa cosa è uno?”.
Se Dio, come proclama il Salmo 8, trae lode persino dalla bocca dei lattanti, è anche grazie alla sapienza pedagogica di chi, come Gioele, sa raccontare e coinvolgere senza annoiare i più piccoli. Lo stesso si dica per i giovani. Per loro, lo stesso evento, l’invasione delle cavallette, Gioele lo ripropone con il registro della battaglia: come un esercito di soldati sono questi insetti: «A vederli, sembrano cavalli, corrono come dei cavalieri. Sembra un fragore di carri, quando saltano sulle vette dei monti; crepitano come la fiamma che brucia la stoppia… Corrono come prodi, danno la scalata alle mura come guerrieri; ognuno va diritto davanti a sé e non devia dal proprio sentiero; nessuno spinge il suo vicino, ognuno avanza per la sua strada; si slanciano in mezzo alle frecce, non rompono le file» (2,4-8).
Nessuno è escluso dall’annuncio. I più anziani, coloro che hanno memoria di tempi faticosi segnati dalla carestia, mentre a tavola mangiano il pane dell’abbondanza e bevono il vino della serenità, Gioele li esorta a ringraziare e insieme li sollecita a non dimenticare il tempo della fatica e del pianto. Immagino un momento conviviale dove, a tavola, Gioele richiama alla memoria il tempo difficile ormai alle spalle: «Voi, figli di Sion, gioite, rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi dà la pioggia d’autunno in giusta misura, e fa scendere per voi la pioggia, quella d’autunno e quella di primavera, come prima. Le aie sono piene di grano, i tini traboccano di vino e d’olio… Mangiate a sazietà e loderete il nome del Signore, vostro Dio, che ha operato per voi meraviglie» (2,23-26).
Nei giorni buoni la gratitudine, in quelli difficili il cordoglio e il pentimento: ma quello vero, non un atto formale; e che tutta la comunità sia coinvolta: «Stracciatevi il cuore, non le vesti; tornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di bontà … convocate una solenne assemblea! Adunate il popolo, santificate l’assemblea! Adunate i vecchi, i bambini, e quelli che poppano ancora! Esca lo sposo dalla sua camera, e la sposa dalla camera nuziale!» (2,13-16).

 Raccontami una storia

Ci lamentiamo spesso perché i nostri figli disertano le nostre liturgie. Non ne capiscono il linguaggio e la gestualità. Chissà se, oltre a cercarne le cause in un mondo sempre meno disponibile a fare comunità, ci siano delle ragioni legate alla nostra stessa incapacità di raccontare e di ascoltare storie. Sappiamo commentare, esprimere giudizi veloci su quanto accade attorno a noi, sappiamo schierarci e prendere posizione, ma stiamo dimenticando che noi siamo storie, storie che ci precedono e ci aprono al futuro, storie da vivere e da raccontare, storie che necessitano di essere accolte e ascoltate.
Chissà se le fatiche nel testimoniare sono anche legate all’aver dimenticato questa sapienza narrativa che chiama in causa tutte e tutti. Siamo storie bisognose di incontrare altre storie. Raccontami una storia, dice la bambina alla madre prima di dormire. Ripartiamo da qui. Dalla sapienza di bambini e bambine affamati di storie. La fede è tutta qui.

 

 

Dell’Autrice segnaliamo:
Esodo, la grammatica della libertà
Claudiana editrice, 2013