Dopo secoli di avventurosi viaggi missionari dall’Europa verso l’Africa, le rotte sembrano invertirsi, con i missionari africani che vengono a evangelizzare il vecchio e affaticato continente europeo, come dimostra l’intervista a fr. Baudoin, originario della Repubblica Centrafricana e ora missionario in Italia, nel convento di Imola

a cura di Saverio Orselli

 In missione di rimbalzo

Quando il Vangelo cresce da sud a nord

intervista a fr. Anselme Baudoin Bonguela-Mbango
a cura di Saverio Orselli

 Ci sono molti modi per parlare della missione e della missionarietà, ma certamente quello che abbiamo provato ad affrontare con fr. Anselme Baudoin Bonguela-Mbango in questa intervista è il modo a cui siamo meno preparati.


Fr. Baudoin, cappuccino centrafricano originario di Bouar, dal 2020 è in Italia come missionario, un ruolo che abbiamo da sempre considerato prerogativa dei “nostri” frati che, coraggiosamente, lasciavano le comodità nostrane per andare a condividere le scomodità africane. Ma tutto cambia e anche la direzione del soffio dello Spirito Santo, più volte citato da fr. Baudoin, spinge e spingerà sempre più in senso contrario alle nostre abitudini, dall’Africa verso l’Europa. «Se ieri erano gli europei che andavano a evangelizzare l’Africa, ora è arrivato il tempo per gli africani di venire a evangelizzare l’Europa, con l’aiuto dello Spirito Santo».
Già in aprile del 2022 fr. Baudoin aveva raccontato questa sua vocazione missionaria, da sud verso nord, in una breve video intervista su Tele Padre Pio, ancora visibile in rete; ora proviamo a sviluppare il racconto, anche alla luce dei due anni trascorsi.

 Per cominciare, raccontaci chi è fr. Baudoin e come è nata la tua vocazione missionaria.
Sono un frate cappuccino originario della Repubblica Centrafricana, dove sono nato nel 1987 a Bouar, la seconda città del paese, sesto di dieci figli di una famiglia di coltivatori e di insegnanti, e sono missionario in Italia da tre anni. Come ogni bambino ho iniziato a fare il chierichetto nella mia parrocchia, che è anche la cattedrale di Bouar, tenuta dai frati cappuccini.
La vocazione missionaria è nata da piccolo, quando avevo dieci anni. Come ho detto, avevo iniziato a servire in parrocchia e dopo qualche tempo il mio parroco, fr. Cipriano Vigo, un cappuccino genovese che, a quasi novant’anni, è ancora missionario in Centrafrica, mi diede un libro su san Francesco; così iniziammo a parlare di questo santo che mi piacque subito, tanto che chiesi di poter entrare in seminario.

 E la decisione di venire missionario in Italia come e quando è arrivata?
A dire il vero non avevo pensato di venire in Italia e consideravo il mio servizio all’interno del mio paese. Avevo iniziato gli studi teologici in Camerun, a Bamenda, dove purtroppo c’era la guerra, così i miei superiori mi mandarono a Bangui, la capitale del Centrafrica, dove ho seguito gli ultimi due anni di teologia. All’ultimo mese di studi, quando ero già diacono e stavo per ricevere l’ordinazione sacerdotale, il mio superiore mi disse che mi vedeva adatto a essere missionario, anche se io pensavo ai primi anni di sacerdozio tra la gente del mio paese. Lui ha insistito, invitandomi a partire per l’Italia, per rispondere alla richiesta di collaborazione arrivata dalla Provincia cappuccina dell’Emilia-Romagna.
A quel punto mi sono detto che forse quella era la volontà di Dio: lasciare tutto, come dice il vangelo – il paese, la famiglia, i luoghi che conoscevo – per una nuova realtà. Così ho accettato di venire qui. Nel mio paese, da diversi anni, la Custodia dei cappuccini è “internazionale”, ed è composta da frati che provengono dalla Liguria, dalla Puglia, dall’Emilia-Romagna ma anche da Francia, Polonia, Canada, così come propose oltre venticinque anni fa il Superiore Generale di allora, fr. John Corriveau. Fino a quel momento ogni Provincia lavorava in autonomia, ognuna in un territorio diverso, mentre, dopo la fusione del 1997, è nata la Custodia della Repubblica Centrafricana e del Ciad. Arrivata la richiesta di collaborazione da parte della Provincia dell’Emilia-Romagna, solo un mese dopo l’ordinazione ho lasciato il mio paese per venire in Italia, dove sono arrivato all’inizio della pandemia da Covid, un rischio che, con l’aiuto del Signore, è stato superato.

 Quindi è stata importante la richiesta della nostra Provincia, anche se, per te che sei cresciuto parlando francese, forse sarebbe stato più facile andare in Francia e non dover imparare una nuova lingua.
È vero, ma il francese e l’italiano hanno una radice comune e non è stato tanto difficile imparare una nuova lingua. È stato un po’ come un gioco, anche se la grammatica italiana e gli accenti non sono facili … mi accorgo che le persone anziane fanno fatica a capire il mio italiano con accento francese, ma col tempo migliorerà.

 Da oltre un anno vivi nel convento di Imola: come è stato l’incontro con questa nuova fraternità cappuccina di Imola? E il rapporto con i volontari che lavorano al Mercatino dell’usato?
Posso dire che il rapporto con questa fraternità è davvero buono, fraterno. C’è la gioia, la condivisione, e c’è anche il rispetto, non solo culturale ma anche umano e questo per me è importante.
Oh, penso che i volontari sono la mia nuova famiglia! Sento che loro fanno davvero parte della mia famiglia: qui a Imola non c’è una persona del mio paese e dovrei sentirmi solo, ma in questo gruppo di volontari ho trovato nuovi nonni, fratelli e genitori e tra noi c’è una buona relazione. Io sono molto felice di lavorare con loro e imparare qualcosa di nuovo.

 Ti aspettavi una realtà come questa o, meglio, sapevi dell’esistenza di questo centro di attività per le missioni?
Me ne aveva parlato il Provinciale, fr. Lorenzo; mi aveva detto che in questo convento avrei avuto la possibilità di fare attività missionaria, di parlare della missione con frati di tanti paesi, dal Centrafrica all’Etiopia, dalla Turchia alla Romania, per allargare l’orizzonte culturale e religioso.

 Sei tornato da poco tempo da un viaggio nella Repubblica Centrafricana: che situazione hai trovato?
Sono stato nel mio paese in estate e ho ritrovato tutti i miei famigliari e, rispetto a quando sono partito, ho trovato un piacevole cambiamento, che potrei definire nella mentalità e nel modo di amare il nostro paese. C’è più gioia. Ed è stato bello scoprire di nuovo che puoi camminare per strada senza paura, anche la notte, e fare festa insieme con gli amici. Per me questa è davvero una buona cosa. Prima non era così, c’era paura di uscire e di sera bisognava stare in casa. Adesso puoi camminare e anche viaggiare!

 Questo è l’effetto della fine della violenza causata dalla guerra o dell’aumento dei controlli di polizia?
No, non è l’effetto dei controlli: nella strada da Bangui a Bouar ho trovato cinque controlli, mentre in passato erano quindici o venti i posti blocco. Ora c’è il cambiamento di mentalità frutto della pace: è stata una gioia ritrovare una popolazione che sta riscoprendo la vita normale, con i bambini che possono danzare alla luna o gli anziani che alla sera raccontano storie alla famiglia raccolta, come ha ripreso a fare anche mio padre, mantenendo viva una tradizione importante, che per ora nemmeno la televisione è riuscita a far scomparire. Purtroppo però non tutto il paese è pacificato e gli scontri violenti sono ancora presenti al nord e in particolare nei territori in cui si trovano oro e diamanti.

 Le strutture sanitarie e le scuole si stanno riprendendo dalle devastazioni della guerra?
La Repubblica Centraficana è uno dei paesi più ricchi dal punto di vista delle risorse naturali, mentre economicamente è uno dei paesi più poveri del mondo e, dopo la devastazione della guerra, ricostruire le strutture andate distrutte non è facile. Per ricostruire i centri sanitari ci vogliono molti soldi e trovarli non è semplice, anche se l’aiuto dei volontari e la raccolta di offerte sono importanti. Spesso mancano le medicine, anche per le donne che devono partorire, e poi non ci sono i dottori… insomma, c’è ancora tanto da fare per rispondere ai bisogni della gente. Pensa che ci sono persone che per raggiungere la clinica di Bouar, gestita dalle Sorelle francescane, fanno anche cinquanta chilometri a piedi o, se sono fortunati, con la moto. Lo stesso discorso vale per i pozzi e per le scuole: c’è ancora tanto da fare!

 Nella zona sono presenti anche le strutture di Medici Senza Frontiere?
No, non ci sono, anche perché dove sono presenti gli ordini religiosi e gli istituti missionari – penso ai francescani, ai carmelitani, ai salesiani e a diversi istituti femminili con i quali c’è una buona collaborazione – una forma di assistenza è già assicurata e quindi è meglio coprire altre aree prive di strutture. Anche quando i frati partono per andare a celebrare l’Eucaristia nei villaggi più lontani, riempiono la valigia di medicinali da distribuire alla gente. Per salvare la vita devono imparare un po’ di tutto, compreso anche a fare il medico: questa è la missione. Poi si può avere da Dio il dono di un fratello missionario medico, come fr. Antonio Triani, che oggi lavora nella clinica di Bouar, capace, grazie al suo occhio clinico, di vedere i problemi prima di tutti gli altri e intervenire in tempo. 

Una curiosità legata al problema dell’ospitalità, tanto spesso richiamata da noi in questi tempi: in occasione di Festassieme in giugno, fr. Matteo accennò all’ospitalità dei frati in Centrafrica durante la guerra; puoi raccontare cosa era successo?
Avevo appena finito il noviziato quando, poco dopo, è scoppiata la guerra violenta tra Anti-Balaka e Seleka che ha causato un numero enorme di sfollati, tanto che nel 2014 nel convento di Bouar abbiamo ospitato diecimila persone, fuggite a causa degli scontri. Ricordo che dormivano all’aperto anche se pioveva spesso, ma non c’era altra soluzione e in cinque studenti e quattro formatori abbiamo cercato di fare del nostro meglio per affrontare la situazione.

 Un problema della nostra Chiesa è quello vocazionale, al punto che diventa una notizia nazionale una ordinazione sacerdotale in qualsiasi diocesi; in Centrafrica come vanno le cose?
Da noi i seminari sono ancora un punto di riferimento. Io stesso sono il “frutto” del seminario, dove sono entrato da piccolo. Ora nel seminario serafico ci sono 68 seminaristi, che stanno crescendo! A Bouar oltre al nostro seminario, c’è quello dei carmelitani e quello diocesano e la convivenza e la collaborazione sono molto buone.

 Infine, una curiosità: dopo questo tempo trascorso qui, cosa pensi dell’Italia e degli italiani?
L’Italia è un paese molto bello e gli italiani mi piacciono; penso anche che, quando ci si avvicina a una realtà nuova, bisogna farlo con rispetto e umiltà, non pensando di conoscere già tutto. Occorre tempo, essere semplice e umile per vivere in Italia, come in qualsiasi altro paese, imparando ad apprezzare le cose belle e vedere quelle meno belle. Come il sole che in Centrafrica non brucia quanto qui!
Tra l’Italia e il Centrafrica ci sono tante differenze; tornando alle vocazioni, quest’anno nel mio paese tra i frati ci sono 22 studenti di filosofia, 11 novizi e 17 postulanti e poi 8 studenti di teologia in Costa d’Avorio, mentre tre frati sono a Bangui per la specializzazione in medicina, giornalismo e legge. Se il lavoro dei missionari ha portato molti frutti è anche grazie al contributo dei volontari che da qui sostengono le missioni nel mondo. Con le piccole cose possiamo farne di grandi! Grazie quindi a tutti i volontari che dall’Italia sostengono l’Africa e il Centrafrica in particolare. Mi piace ringraziarli e lo faccio volentieri, assicurando la mia preghiera per tutti.