“In convento” o quasi. “Limite invalicabile” su quella recinzione a Miramare e, per certi aspetti, su ogni porta dell’hospice Casa Madonna dell’uliveto.
Che diventa però “limite valicabile”, se valicato con il saio dell’umanità. E così anche la porta del convento diventa “valicabile”. L'accompagnamento dei moribondi, sin dai lebbrosari prima e dai lazzaretti poi, è roba di famiglia.

a cura della Redazione di MC

 Quando si vive

Pensieri in libertà entrando e uscendo dalla Casa Madonna dell’uliveto 

di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 In pochi, così, senza pretese, cercando di accogliere la pace di Dio perché diventasse in noi preghiera, camminavamo lungo la recinzione.

Non a caso lì, a Miramare, nei pressi della base NATO di Rimini, allora dotata di testate nucleari. Cartelli metallici ritmicamente distribuiti ci avvisavano con un’iperbole: quella recinzione era un “LIMITE INVALICABILE”. Cioè, il divieto era così assoluto da escludere anche la più vaga possibilità di violarlo!

 La trasgressione di chi bussa

Ecco, ogni volta che entro in una stanza, qui nella Casa Madonna dell’uliveto, ho l’impressione di “trasgredire”, di fare un passo oltre un limite invalicabile. Chi è malato, chi si prepara a compiere gli ultimi passi del suo cammino, spera, e allo stesso tempo teme, che qualcuno osi valicare quel limite. Mi pare utile sgombrare il campo da un possibile equivoco. Il limite e la sua apparente invalicabilità, non è da imputare a differenze di credo religioso o a mancanza di fede. Certo, io salgo fin qui, e violo quel limite invalicabile, con il mio abito da frate e per attrazione di Cristo. Ma, allo stesso tempo, quell’abito e quell’attrazione non mi tolgono il peso, e la gioia, che devo alla mia storia ed esperienza umana.
C’è un terreno comune in cui posso farmi prossimo ad ogni persona, è quell’umanità che è patria per entrambi. Così qualsiasi sia la sua appartenenza religiosa, o non religiosa, qualsiasi cammino spirituale stia percorrendo, insieme potremo contare su un bagaglio condiviso molto più importante e decisivo rispetto a ciò che ci allontana. Il limite da oltrepassare non è tanto sulla porta della stanza, quanto nell’unicità di ogni persona e di ogni storia. C’è, infatti, una solitudine che non può e non deve essere cancellata: è essa che fa di me ciò che io solo sono e fa dell’altro che mi sta di fronte ciò che lui solo è. Perciò si spera che un alleato voglia porsi a fianco di questa unicità, e si teme chiunque non sappia riconoscerla e rispettarla.
A Miramare scoprimmo pian piano che il limite invalicabile che, stando fuori di noi, ci occultava la forza micidiale della bomba, era annodato stretto stretto a quello che, stando dentro di me, mi occultava (e tuttora tenta di occultarmi) la mia fragilità ferita. Ci fu chiaro che la recinzione e la bomba da essa custodita sono la manifestazione visibile di tutto il filo spinato e di ogni bomba che, invisibili, mi tengo dentro per rimuovere da me la mia radicale debolezza e la mia condizione mortale, perché da lì risalgono minacciose solitudini e paure inquietanti.

 La rovesciata di De André

E io che credo in Cristo Risorto? Io lotto per non cedere alla tentazione di sventolare la bandiera della fede per salvare la bontà onnipotente di Dio; io lotto per tenermi cara la mia paura e non esorcizzarla autodichiarandomi forte; io lotto per restare nella speranza e nella fede senza farmene padrone; io lotto per non rimanere sospeso tra la difesa del volto di un Dio predigerito e l’affermazione che, comunque, io di Dio non ho davvero bisogno.
Senza questa lotta alla persona malata invio questo messaggio: «Soffri quanto vuoi, ma tu il mio Dio (o il mio idolo?) non me lo tocchi». E lei, sola nel suo dolore, non potendo condividere la preziosità irripetibile di ciò che vive sulla soglia del mistero, sperimenta la vittoria della morte prima di morire. Fabrizio De André, nel suo beffardo Testamento, non a torto, cantava che «quando si muore si muore soli». Ecco, il regalo grande che ricevo qui all’hospice: l’idolo che mi vorrebbe suo schiavo qui viene preso a mazzate sante e robuste. Ogni volto qui mi fa da specchio e mi restituisce al volto e alla compagnia, solitaria e condivisa, di sorella morte. Di fronte a lei non puoi più giocare a nascondino con la tua solitudine. Più la senti prossima e più metti alla prova il bagaglio interiore che hai fatto tuo nel tempo, attraverso gli eventi, la fatica, i fallimenti e le gioie.
Ma la frase di De André sembra scritta apposta per essere ribaltata. Ad esempio, “quando si è soli si muore” o anche “quando si vive, si vive nell’amore”. C’è, infatti, una solitudine che uccide, e nell’amore ce n’è un’altra che, invincibile, rimane come appello profondamente personale a relazioni fraterne e riconciliate, come una speranza di vita sovrabbondante.

 Liberi di ospitare

Intanto, ogni volta che la vicinanza si fa più intima, da una parte e dall’altra del limite invalicabile, ci si è sentiti liberi di essere ospitali, cioè di accogliere qualcuno dentro lo spazio esistenziale della propria vita ed esperienza. Due solitudini ferite, due vite, almeno in parte, fallite, certamente bisognose entrambi di Risurrezione, cioè di vita nuova e piena, fanno della propria unicità un luogo di incontro e di ascolto solidale e possibile perché sorella morte è compagna fedele, non di chi è malato, ma di ognuno che vive. «Per la vita e per la morte siamo transitori, ogni momento» ci avvisa il pellegrino di Everyman, dramma morale inglese del 1400.
Io, allora, cerco di volgermi ai volti, per attendere in alleanza fraterna che il Volto si faccia vicino a noi. Cerco di rendermi disponibile a portare la mia solitudine, ferita e povera di tutto, lì, accanto alla solitudine di chi lotta con la propria paura di essere abbandonato all’abisso e, come può, continua a sperare che sotto il velo del nemico si nasconda quella sorella che tutti vuole accompagnare alla soglia del Mistero, là dove ci accoglie un abbraccio che sorprende dall’alto e sorge dall’abisso imperscrutabile di un Dio che, oltre ogni misura, dona vita.