Sapore di mare

L’identità dei Cappucci fra vecchie noci e nuove domande

 di Fabrizio Zaccarini
della Redazione di MC

 Il mare senza sosta riceve e dona. Non per calcolo, ma per natura intima sua, in totale apertura e senza interruzioni dona e riceve.

Qualcuno, forse tra altre memorie scolastiche un po’ arrugginite, conserva anche la famosa definizione dei cappuccini che Manzoni, nel terzo capitolo dei Promessi sposi, mette sulle labbra di fra Galdino. Ma prima di riproporre la definizione do un’occhiata al suo contesto. Rischio di rimanere incastrato tra le spire narrative del romanzo, lo so, ma fondare un ragionamento su una citazione decontestualizzata è il metodo più sicuro per affondarlo, dunque...

 Alla porta fra Galdino

Siamo al terzo capitolo, i bravi hanno avvisato don Abbondio che il «matrimonio non s’ha da fare», Renzo con i capponi è andato dall’avvocato Azzeccagarbugli e fra Galdino, il questuante dei cappuccini, si trova a casa di Lucia e della madre Agnese, in cerca di noci, lamentando lo scarso successo ottenuto finora. Agnese ricorda al frate che la stagione non è stata molto favorevole e il frate risponde: «e per far tornare il buon tempo, che rimedio c'è, la mia donna? L’elemosina» e racconta il miracolo delle noci. In Romagna un uomo trattiene per sé le noci che il padre defunto aveva promesso ai frati e mal gliene incoglie! Al posto delle noci trova «un bel mucchio di foglie secche»; e fra Galdino conclude con la famosa citazione «noi siamo come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi», che, a questo punto, perde parecchio del suo smalto romantico.
Fra Galdino è più attento a ricevere acqua da tutte le parti, che a restituirne a tutti i fiumi. Propone l’elemosina con motivazioni più vicine alla scaramanzia che alla fede in Dio Padre misericordioso e provvidente. Il suo racconto di noci promesse, trattenute e perciò diventate foglie secche, sembra più un ricatto che la richiesta di un povero. Ricevuta da Lucia una generosa elemosina «se n'andò, un po' più curvo e più contento, di quel che fosse venuto». La giovane, rimproverata dalla madre per l’eccessiva generosità, si scusa dicendo: «Se avessimo fatta un'elemosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d'aver la bisaccia piena; Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente».
Fra Galdino agli occhi di Lucia è preso ben più dalle esigenze dei frati e dalle sue e altrui ciarle, che dalle sofferenze dei poveri, per altro suoi benefattori. Se fra Cristoforo è uno dei pochi eroi nel romanzo, fra Galdino appartiene alla zona chiaroscura dei più numerosi antieroi. Il nostro frate questuante ne esce ancor di più con le ossa rotte se lo chiamiamo a confrontarsi con la regola di san Francesco: «E quando gli uomini facessero loro vergogna e non volessero dare loro l’elemosina, ne ringrazino Iddio, poiché per tali umiliazioni riceveranno grande onore presso il tribunale del Signore nostro Gesù Cristo». Altro che miracolo delle noci! San Francesco dispone di chiedere con semplicità di cuore, senza pretendere nulla. Fra Galdino invece rivendica l’elemosina, di fatto, come diritto divinamente sancito.

 A fianco dei piccoli

Ma una qualsiasi ragazza del popolo come Lucia poteva, con tanta confidenza, chiedere a fra Cristoforo di andare a casa sua per parlarle? Il brano che segue è la risposta di Manzoni che ci aiuta ad allargare lo sguardo all’ordine nel suo complesso. «Tale era la condizione de' cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl'infimi, ed esser servito da' potenti, entrar ne' palazzi e ne' tuguri, con lo stesso contegno d'umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino».
L’elemosina, dunque, non è solo un mezzo di sostentamento economico, ma anche l’espressione simbolica del nostro posizionamento sociale di minori, a fianco dei più piccoli. Ciò era, ed è, per noi motivo di forza e di debolezza. Pochi soffrono complessi di inferiorità di fronte a noi, e questa è la nostra forza. D’altra parte questo posizionamento ci espone al rischio di trovarci, magari con le migliori intenzioni di fare del bene, solidali con gli oppressori invece che con gli oppressi. È importante un discernimento approfondito su base evangelica, perché non capiti anche a noi di essere deboli con i forti, e forti con i deboli.
Faccio un salto nel romanzo fino al diciottesimo capitolo. Trovo il provinciale, di cui non ci vien mai detto il nome (come se il ruolo avesse del tutto assorbito la persona), incontra il conte zio (di nuovo un ruolo e non un nome!), che lo obbliga a trasferire il povero fra Cristoforo. Manzoni non scrive solo le parole che il provinciale dice, ma anche quelle che pensa, così non ci sono dubbi: egli subisce il sopruso a malincuore. Ma, pure ammettendo che egli non avesse alternative, di fatto, diventa una rotellina del sistema di potere piramidale che determina ulteriori guai per i poveri.
Se lascio le pagine del romanzo io ho sperimentato direttamente il desiderio di politici, o comunque di persone ragguardevoli, di tenersi in amicizia con noi e, talvolta, di ostentare quell’amicizia davanti a tutti con atteggiamenti la cui pelosità richiederebbe talvolta qualche ceretta. Ma ho conosciuto anche la difficoltà di comprendere la nostra vita, a vedeee bellezza e senso di pienezza nei nostri voti di castità, povertà e obbedienza da parte di non poche persone, giovani e adolescenti soprattutto, ma non solo. Così a quasi tutti noi credo sia capitato di diventare oggetto di scherzi, anche grevi a volte.

 Ancora una bella storia

La disponibilità a non rispondere con sarcasmo al sarcasmo, a rimanere soggetti all’umiliazione, portandone il peso con relativa serenità e, allo stesso tempo, non subendola passivamente ma rispondendo, magari con ironia delicata ed arguta, sono gli ingredienti di una testimonianza efficace di vita evangelica in questi frangenti. Capita allora che la gente apra gli occhi e si renda conto che, con tutte le loro fatiche e contraddizioni, ancora i cappuccini ci provano a fare cose buone.
Ci sono però alcune domande nuove, ineludibili, legate più strettamente al tempo che viviamo. Per esempio abitiamo generalmente strutture sproporzionate rispetto alla nostra realtà attuale e ancor più di domani, visto il drastico calo numerico che stiamo affrontando. Si tratta di strutture che necessitano spesso di importanti interventi strutturali. Non basta chiedersi dove trovare i fondi, bisogna chiedersi anche cosa fare di quelle strutture, come dar loro un senso e un utilizzo quanto più possibile adeguato.
Ma noi saremo in grado di condurre la nostra vita fraterna coabitando con strutture di accoglienza, ad esempio per immigrati o per anziani, o per persone bisognose di accoglienza come capita molto spesso ai padri separati? O dovremmo lasciare i luoghi storici ad altri per riportare vita, in accordo con le diocesi, in qualche canonica abbandonata? A San Martino in Rio, intanto, la provincia da diversi anni ha provato a immaginare una nuova forma di collaborazione tra l’Ordine francescano secolare, altri laici amici del convento e i frati di Scandiano, e ora il progetto sta muovendo i primi passi. Perché, anche nelle proposte formative, non abbiamo nessuna intenzione di smettere di “ricevere acqua da tutte le parti e di darne a tutti i fiumi”.
Ecco, io non so nuotare, ma essere come il mare mi sembra lo stesso una bella storia!