Della vera e perfetta obiettività 

di Dino Dozzi
Direttore di MC

 «Sembra un paradosso, ma il massimo di obiettività corrisponde al massimo di consapevolezza di come sia relativo ciò che raccontiamo». L’affermazione è di Carlo Maria Martini (Il lembo del mantello). Raffinato è anche quel verbo “raccontiamo”, che tende a ridimensionare l’alto concetto che normalmente abbiamo delle nostre affermazioni apodittiche, indiscutibili o dogmatiche, “obiettive”, appunto, come ci piace sottolineare.
Siamo nel campo dell’ermeneutica, la scienza dell’interpretazione, una scienza tecnicamente giovane, ma in realtà antica quanto l’uomo. Ho avuto la fortuna di avere come professore di ermeneutica biblica Luis Alonso Schökel, poeta e biblista gesuita spagnolo, che ci ripeteva spesso: «L’occhio dell’osservatore modifica il fenomeno». E quindi suggeriva di verificare sempre con attenzione critica l’interpretazione dei fenomeni, quindi anche dei testi e dei fatti, presentata frettolosamente come “obiettiva”. Ci diceva di prendere esempio dai tre grandi “maestri del sospetto” della modernità: Marx, Nietzsche e Freud.
Dunque non esiste l’obiettività? Siamo nel regno del relativismo? No, dice Martini: l’obiettività esiste ma corrisponde al grado di consapevolezza che abbiamo della relatività di ciò che raccontiamo. È quanto faticosamente si impara anche nei laboratori psicologici, dove ci viene continuamente suggerito di sostituire le affermazioni tipo “le cose stanno così” con “io vedo le cose così” e “gli altri sono così” con “io sento gli altri in questo modo”.
Questa “obiettività relativa” da una parte mette in guardia dal ritenersi gli unici depositari della verità - cosa non inutile anche ai nostri giorni - e dall’altra incoraggia a prestare grande attenzione all’obiettività contenuta nel parere degli altri, cosa sempre utile. Siamo nella logica del poliedro, così cara a papa Francesco: che si tratti di un imprinting di stampo gesuitico? L’oggetto - il fenomeno, il fatto, il testo, l’altro - è un poliedro dalle tante facce, ognuna delle quali, e purtroppo solo una, è vista dall’osservatore. Per chi ricerchi un orizzonte più vasto, una verità più completa e una obiettività più vera, ne deriva l’utilità - ma forse proprio la necessità - di porsi in attento ascolto del punto di vista degli altri.
Specialità gesuitica o caratteristica francescana? Forse semplicemente ricordo dell’insegnamento evangelico. Nel grande mosaico all’ingresso del Collegio internazionale San Lorenzo da Brindisi dei frati cappuccini, opera di padre Ugolino da Belluno, sul GRA di Roma, è raffigurato Cristo con il vangelo in mano e una scritta riporta Mt 23,8: Uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli, che suggerisce il collegamento tra il magistero di Cristo e la fraternità: l’insegnamento dell’unico Signore e Maestro arriva a ciascuno tramite la fraternità, non quindi dall’alto ma dagli altri. Non solo la perfezione, ma anche la verità pare francescanamente frutto dell’apporto di tutti.
Dice Paul Ricoeur che comprendere un testo è comprendersi di fronte al testo. Ne fece esperienza anche san Francesco che, all’apertura dei vangeli, esclamò: «Questo voglio, questo chiedo, questo bramo di fare con tutto il cuore!» (1Cel 22: FF 356). Il vangelo gli aprì gli occhi, dandogli la bella notizia che Dio c’è, che ha il volto di un Padre che ama tutti gli uomini come suoi figli, che l’uomo può vivere con gioiosa e riconoscente “parresía” nella casa del Padre. Quella di Francesco sarà una vita evangelica di riconoscenza per la bella notizia ricevuta. Alla luce della Parola, che gli rivela un solo Dio e Padre di tutti, Francesco attorno a sé vede solo fratelli e sorelle. Perfino gli animali e le cose, nella solidarietà creaturale, egli chiama fratelli e sorelle ed entra attivamente in rapporto con tutti e con tutto. Per lui nessuno e niente è più anonimo: trovato il nome di Dio padre, trova il nome fraterno di tutti e di tutto. Si fondono la comprensione del vangelo, di se stesso e di tutto il resto.
L’ermeneutica interpreta e crea: lo chiamano circolo ermeneutico perché il soggetto spiega il testo e il testo spiega il soggetto e dalla spiegazione vicendevole nasce e cresce l’identità di entrambi. È forse questo il significato profondo dell’invito che Dio fa all’uomo in Gen 2,19 a “dare un nome” ad ogni creatura. Il filosofo Federico Campagna nella sua Cultura profetica. Messaggi per i mondi a venire, (Tlon 2023) considera “nostre narrazioni” il tempo, la storia, il mondo di ieri e di oggi. Siamo figli delle narrazioni passate, ma siamo anche padri delle narrazioni future: che cosa lasciare in eredità a coloro che verranno dopo di noi - si domanda - se non la coscienza della loro relatività e l’augurio di un’umile e fraterna ricerca di narrazioni condivise?
La storia è fatta da chi la racconta; il mondo è fatto dalle narrazioni che ne facciamo: l’ermeneutica è invasiva e creativa, interpreta e fa il mondo raccontandolo. Ma questo riguarda tutti e ognuno, compresa la responsabilità che ci assumiamo raccontando (e scrivendo). L’obiettività ha un nome: diversità. E la verità ha un nome: pace. La vera obiettività ha un volto, quello della convivialità delle diversità, come amava dire quel grande vescovo francescano secolare, don Tonino Bello, morto trent’anni fa, ma ancora vivo nel cuore di tanti.