Come oceani a partire dal nulla

I Cappuccini e la cristianità alla ricerca dell’acqua nel deserto

 di Fabrizio Zaccarini
dell Redazione di MC

 Caro frate Francesco, mi rivolgo a te come fratello in cammino di conversione. Cioè, non scrivo «San», ma «frate» Francesco.

Così hai firmato le tue lettere e il tuo Testamento, immagino non ti dispiaccia troppo sentirti chiamare ancora così da uno dei tuoi figli/fratelli.
Copiando frate Masseo io ti chiedo: “Perché a te, perché a te, perché a te?”, frate Francesco, anche in zona Cesarini, mentre l’arbitro stava per emettere il triplice fischio che segna la fine di ogni partita, sulle labbra si appiccicavano parole di inizio? Perché a te la vita si manifestava viva mentre la morte bussava alla tua porta?
Anche in quell’ora avevi spazio nel cuore per fare memoria grata dell’inizio della tua vita capovolta dall’irruzione dei poveri e di Cristo: «Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così» (questo l’inizio del tuo Testamento). Non solo! Tommaso da Celano racconta che, in quella situazione drammatica, avresti detto ai tuoi fratelli: «Cominciamo fratelli a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto» (Vita prima, FF 500).
L’eredità che consegnavi ai tuoi fratelli era un’esperienza irriducibile agli schemi del diritto canonico o della teologia insegnata dai dotti docenti di Parigi, ricca di profondità da loro mai sperimentate, aveva una qualità evangelica così densa da risultare pesantissima e, allo stesso tempo, imprendibile e leggera come un sogno o uno di quei discorsi disarticolati che fanno e capiscono solo i matti.
Ti sei avventurato su piste diverse, affacciate su orizzonti straordinariamente vasti e ricchi di tensioni feconde e contraddizioni liberanti. Solitudine eremitica e contemplazione, come se niente fosse, si affiancavano a vita fraterna; condivisione con i poveri, lavoro manuale, povertà più intransigente per quanto vissuti con intensità commovente non diventavano, come ci si aspetterebbe, barricata rigida contro i frati che volevano insegnare e studiare teologia. Una proposta, la tua, frate Francesco, che vive più di tensioni aperte alla creatività personale e fraterna, che di armonie immodificabili a cui uniformarsi per imitarle e perpetuarle.

 La roccia e il lebbroso

Noi che veniamo dopo di te guardiamo a te, sì, ma per trovare la nostra via di fedeltà a Cristo e all’uomo. Ogni frate minore, per essere tale, deve quotidianamente collocarsi come te, anche in fin di vita, all’inizio di una ricerca. La vita che il Padre ci ha donato attraverso di te si concretizza nella forma di una ricerca inesausta di nuove forme. Sei tu che ci sfidi ad inventare ogni volta la nostra vita. Era forse inevitabile che la tua eredità fiorisse in una molteplicità di proposte e di ri/forme.
Frate Francesco, ti sarebbe piaciuto tanto, se lo avessi letto, quello che scriveva Efrem Siro, tuo antico predecessore e collega poeta, ora amico tuo nelle zone celesti. «Ho considerato il Verbo creatore/ comparandolo/ alla roccia che marciava/ con il popolo di Israele nel deserto,/ non era dalle provviste d’acqua/ contenute dentro di lei/ che essa riversava fuori per loro/ fiotti ammirabili:/ non c’era acqua in essa,/ benché oceani scaturissero da lei./ Come la Parola, essa conduceva/ gli Ebrei a partire dal nulla».
Quella roccia era priva della più minuscola goccia d’acqua, tuttavia da lei scaturivano oceani. Essa ci restituisce contemporaneamente alla fecondità di Dio e alla nostra costitutiva fragilità di creature mortali. Così i lebbrosi erano la tua roccia. Pativano l’ingiustizia dell’emarginazione più violenta, con la loro carne ferita ti hanno salvato, frate Francesco, dalla tentazione di onnipotenza narcisistica che ha appesantito la tua giovinezza e ti hanno aperto la porta della misericordia che il Padre dona ai suoi figli. Non mi stupisce che nel tuo Testamento parlando dell’inizio del tuo cammino di conversione tu abbia parlato solo dell’incontro con loro. 

Fuori e dentro al recinto

Mi stupisce amaramente, invece, che quell’incontro manchi dalla Legenda minor di Bonaventura e, di conseguenza, dalle pareti affrescate della basilica che porta il tuo nome. Mi stupisce che, ancor prima, Celano, per dire che incontrando il lebbroso tu hai incontrato Cristo, abbia trovato utile affermare che il lebbroso che avevi incontrato e abbracciato sia sparito (cf FF 592). Come se gli eventi concreti della nostra vita, non fossero, nella loro nuda materialità, storia di salvezza. Come se la carne ferita degli uomini non fosse luogo eminente dell’azione vivificante dello Spirito.
Quando Celano e Bonaventura, con le loro buone ragioni, non discuto, mettono in atto questa dolorosa censura, noi frati minori avevamo lasciato la condivisione quotidiana con i poveri, per rintanarci in confini monastico-clericali. I poveri, quando non li dimenticavamo del tutto, erano per noi oggetto di assistenzialismo. A noi figli/fratelli tuoi, frate Francesco, sposo di Madonna Povertà, restava la virtù della povertà ascetica. Ben presto avremmo rinchiuso quella Sposa nel recinto delle norme e ci saremmo strappati gli uni gli altri la bandiera della fedeltà alla tua regola a colpi di interpretazioni e privilegi curiali.
Frate Francesco, te lo chiedo da cappuccino, figlio di uno di quegli strappi laceranti: non ti sembra che questa analisi trovi una autorevole conferma nel fatto incontestabile che la santità cappuccina si sia liberata, con così grande e fantasiosa sovrabbondanza, soprattutto tra chi viveva, per la maggior parte del tempo, sulla strada, fuori dal recinto e lontano dal chiostro, cioè tra i frati questuanti, che erano sempre in mezzo al popolo, inevitabilmente a contatto con le fatiche e le sofferenze dei piccoli?
Intendiamoci, frate Francesco, io sono contento di essere cappuccino, e se qualcuno mi chiedesse se era meglio avere o non avere le riforme francescane, direi subito con convinzione: “Comunque, ne è valsa la pena”. Esse sono state dono di Dio e il francescanesimo è, in profondità, un movimento di radicale rinnovamento evangelico e perciò vive ed è generativo solo se non perde questa sua identità di riforma. Tuttavia, frate Francesco, quelle riforme non avrebbero potuto esistere senza lacerare l’unità della famiglia?

 In mezzo al guado

Ma… sì, frate Francesco, meglio guardare avanti. Tu, frate Francesco, mi insegni a non piangere per ciò che poteva essere e non fu, ma a sognare e a costruire sin d’ora ciò che ancora non c’è. Ecco, frate Francesco, noi oggi, in questo tempo frammentato di trasformazioni sociali, ecclesiali e perfino antropologiche, noi siamo quelli del guado. La sponda che abbiamo lasciato non la vediamo più e quella che stiamo ancora cercando di raggiungere non si vede ancora. Non dovrebbe essere difficile per noi ricordare che comunque l’unità che accoglie e apprezza le diversità è il compito ancora e sempre da fare. La chiesa come società perfetta, i frati minori identificati con la povertà canonicamente recintata, una società che un po’ ipocritamente pretendeva di essere cristiana ci hanno illuso per troppo tempo di aver portato a termine la corsa.
Il deserto che noi stiamo attraversando, frate Francesco, non va compreso come il tempo in cui, non avendo, ci viene tolto ciò che ingenuamente credevamo di avere (cf. Lc. 8,18)? Noi frati, i cristiani in genere, ci sentiamo impoveriti. Non dovremmo imparare a sentirci alleggeriti, invitati a non fuggire dalla piccolezza evangelica del seme di senape? Tanti pensieri, molto confusi, molte domande irrisolte che non sono altro che il mio, forse il nostro, modo di unirci a te per dire a me stesso e ai lettori: «Cominciamo fratelli a servire il Signore Iddio, perché finora abbiamo fatto poco o nessun profitto».