Se la terra trema, non tremi il cuore
di Dino Dozzi
Direttore di MC
Il Festival Francescano è presente non solo in Piazza Maggiore a Bologna a fine settembre di ogni anno, ma anche nelle piazze digitali durante tutto l’anno per seguire con sguardo fraternamente francescano gli avvenimenti della nostra storia. Avvenimenti non sempre lieti. Il 29 marzo ha organizzato un webinar per ascoltare dalla viva voce di due missionari la testimonianza di come stanno le cose nelle zone più colpite dal terremoto di inizio febbraio in Turchia e in Siria, e di cosa si sta facendo per riprendere a vivere. Alle domande di Mario Galasso rispondevano padre Francis Dondu, frate cappuccino parroco di Antiochia e padre Elia Karakach, frate minore parroco di Aleppo. Diversi questi due frati e diverse ma molto toccanti le testimonianze che hanno offerto.
Ad Aleppo il terremoto ha distrutto quel po’ che era rimasto in piedi dopo dieci anni di guerra. La scena descritta da padre Elia che mi è rimasta in mente è quella della gente che, mentre la terra tremava, correva tutta nella chiesa e nel convento dei frati, edifici che evidentemente hanno resistito alle scosse del terremoto, edifici ben conosciuti da tutti perché luoghi dove più di mille persone al giorno trovavano anche prima un pasto caldo. Ora, oltre ai pasti, la gente trova qui anche alloggio. Con voce calma e sicura padre Elia ha spiegato che la stessa cosa riguarda anche altre strutture gestite dai frati nei diversi quartieri della città, dove gli opposti eserciti rendono spesso difficile l’arrivo di aiuti umanitari sia dallo Stato che dall’estero. I frati restano uno dei pochi punti di riferimento per questo gregge senza pastore, assalito da forze belliche e naturali devastanti.
E poi Antiochia. Padre Francis non nasconde di essere ancora profondamente scioccato dalla drammatica esperienza fatta; ha dovuto allontanarsi da Antiochia dove è parroco - come tutti d’altra parte perché Antiochia praticamente non esiste più - ed è ora a Meryem Ana per riprendersi e poter tornare quanto prima tra la sua gente dispersa nelle città vicine, soprattutto a Mersin dove i cappuccini hanno aperto chiesa e convento per accogliere i sopravvissuti anche di Antiochia. Per aiutare e sostenere i confratelli in questi difficili momenti, è partito per Mersin anche fr. Michele Papi che così descriveva la situazione: «Avvicinandomi in auto alla città di Antiochia, devastata dai terremoti iniziati il 6 febbraio, aumentano costantemente le costruzioni sventrate come le tende azzurre o bianche dalla Protezione Civile. Spesso supero gruppi di camion che trasportano casette prefabbricate, mentre nel senso opposto procedono i mezzi carichi di detriti. Entrando nel centro dell’antica città dal ponte sul fiume Oronte il fiato si spezza: poche costruzioni sono rimaste in piedi e sono da abbattere. Le ruspe lavorano senza sosta e dopo il loro passaggio, dove prima c’erano case e vita, resta solo una distesa di pietre spianate e un silenzio surreale. La città è irriconoscibile per gli stessi (pochi) abitanti rimasti a vagare tra le macerie nel tentativo di mettere in salvo qualche oggetto o a piangere, sostando davanti a quella che era la loro casa ed ora è diventata la tomba dei loro cari. Ci vorranno anni di duro lavoro, ma resta doveroso provare a ricostruire la vita dei sopravvissuti; quello che possiamo fare noi frati è mantenere unite le piccole comunità cristiane a noi affidate».
Molte volte ho accompagnato gruppi di pellegrini in Turchia, la terra santa della Chiesa; una tappa da non saltare mai era appunto Antiochia, sia per la sua straordinaria importanza storica sia per la bellissima esperienza ecumenica e interreligiosa che la caratterizzava nel presente. Antiochia è la Chiesa di Pietro e di Paolo, è la comunità di partenza e di arrivo dei viaggi dell’Apostolo delle genti, è dove per la prima volta i seguaci di Gesù furono chiamati cristiani, è dove la Chiesa si è aperta ai pagani. E negli ultimi trent’anni Antiochia - soprattutto per opera di padre Domenico Bertogli - è stata un luogo di sperimentazione effettiva di comunione ecumenica (tra cattolici, ortodossi ed evangelici) e di autentico dialogo tra le religioni abramitiche (ebrei, cristiani e musulmani). Visitare Antiochia, ricordando il suo ricchissimo passato ed assaporandone la proiezione religiosa futura, allargava il cuore alla speranza. Sentire che ora Antiochia praticamente non esiste più fa proprio male. Perché anche le pietre parlano. E le pietre son cadute una sull’altra. Ma sono soprattutto le famiglie e le comunità religiose presenti in quel luogo che sono disperse e chissà se riusciranno a ricostituirsi da qualche parte.
Stanno emigrando. E qui si apre il dolorosissimo capitolo non delle migrazioni in astratto, ma dei migranti con un nome e un volto precisi, con tutto il carico di incertezza, di rischio, di sofferenza che comporta il mettersi in viaggio su un barcone. Ammesso che riesca a raggiungere una riva, come verranno poi accolti questi migranti? Alcuni di loro vengono forse da una comunità dove si leggeva e si praticava ancora quella pagina degli Atti degli Apostoli dove si dice che «la moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva… nessuno tra loro era bisognoso…» (cfr. At 4,32-35). E forse questi migranti, oltre al sogno di poter ricominciare a vivere, sperano anche che, approdando a coste di un paese cristiano… Brutta roba i terremoti tellurici. Roba ancor più brutta i terremoti spirituali, di umanità.
E mentre andiamo in stampa, ecco l’alluvione che ha colpito in modo drammatico la Romagna, provocando più di una decina di morti, migliaia di persone che hanno dovuto lasciare le loro case invase dall’acqua, strade di tante città percorribili solo con i gommoni, campi devastati, strade interrotte da frane, paesi rimasti isolati diversi giorni senza acqua potabile e senza luce... un disastro di drammatiche proporzioni. |