In questo numero di MC, nella rubrica “Indicativo Futuro” vorrei raccontarvi due esperienze fatte in prima persona nelle scorse settimane: il servizio di protezione civile presso gli alluvionati in Romagna e il Pellegrinaggio dei padri a La Verna.

di Michele Papi

Se la vita comunque cresce

Due esperienze di condivisione di cammino e di badile

 A Cotignac in Provenza c’è un santuario eretto sul luogo in cui nel 1660 apparve ad un pastorello San Giuseppe, facendo scaturire una sorgente d’acqua per dissetarlo;

verso quel luogo da anni alcuni padri di famiglia parigini si dirigono in pellegrinaggio in un fine settimana di giugno. Lo stesso accade anche nella Basilica di Vézelay in Borgogna dove confluiscono i cammini di tanti gruppi provenienti da varie parti di Francia. Anche in Italia e precisamente a La Verna, sette anni fa, alcuni uomini che avevano scoperto la tradizione francese e partecipato ad alcune edizioni di questi pellegrinaggi si recarono per vivere tre giorni di preghiera e condivisione lungo un cammino che si snoda tra i paesaggi meravigliosi degli Appennini toscani. Si sa che il passaparola è un meccanismo formidabile ed ecco che da un piccolo gruppo di amici questo pellegrinaggio annuale diventa una cosa grande che coinvolge circa 170 uomini: sposi, vedovi, separati, single, giovani e anziani, tutti figli e ciascuno a modo suo padre…

 A modo mio

Ad accompagnare i pellegrini, anzi a camminare con chi cammina condividendo le stesse gioie e i dolori, da sempre ci sono alcuni frati francescani, anche loro “padri” in cerca di un momento di stacco dalle occupazioni quotidiane e dai rapporti domestici, che si rivolgono al Signore per chiedere la sua luce con il desiderio di rifletterne almeno un po’ sui vicini. Quella stessa luce che Dio volle donare al suo servo Francesco proprio sul monte de La Verna in un giorno di settembre del 1224 quando impresse sul suo corpo i segni delle stigmate di Cristo. Quest’anno abbiamo riflettuto sul versetto di Genesi 2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una sola carne». Non sono mancati i momenti di preghiera e le catechesi culminati nella celebrazione eucaristica di sabato sera in santuario, seguita dalla processione eucaristica (fino alla casa “La Beccia” delle suore della Sacra Famiglia che ci ospitavano) che poi si è prolungata in una adorazione notturna.
Il punto di forza di questa esperienza è senza ombra di dubbio il clima di condivisione totale nel quale ognuno si sente libero di manifestare quello che lo Spirito gli ha suggerito, insieme alle esperienze e ai dubbi che lo abitano. Gli uni per gli altri siamo stati come frammenti di uno specchio nei quali ognuno ha potuto vedere la propria vita alla luce della chiamata ricevuta da Dio. Un dono e una grazia grandi! Tutto questo è facilitato dai quattro pilastri che caratterizzano il cammino: l’assenza di giudizio sulle convinzioni spirituali e religiose di ognuno; l’accoglienza di tutti, di qualunque età, estrazione sociale, situazione professionale o personale; la libertà intesa come assenza di formalismo; una sincera messa in gioco per ri-scoprire il posto di Dio nella vita di ciascuno.
Una esperienza tutta al maschile, ma purificata da quelle caratteristiche di competizione, performance, lotta, persino violenza nelle quali ormai in pochi si riconoscono restandone però troppo spesso schiavi. Un cammino di ricerca per poter essere sposi e padri migliori, per imparare la difficile arte di amare alla scuola del vangelo, sulle orme di Cristo e del suo servo Francesco che sono passi di dono totale, di croce, ma anche di vita piena. Un pellegrinaggio vocazionale per darsi modo di comprendere cosa Dio mi sta chiedendo in questo momento, quale sia il suo desiderio su di me dentro al contesto delle scelte di vita già prese e alle situazioni concrete in cui mi trovo per tanti motivi.

 La speranza è giovane nel paciugo

Le provincie della Romagna, lo sappiamo bene tutti, lo scorso mese di maggio sono state sommerse da acqua e fango. Una catastrofe dovuta a piogge fuori dall’ordinario cadute su un territorio fragile tanto nelle valli appenniniche quanto nelle terre basse conquistate da antiche bonifiche. Un evento che per estensione e intensità non era ricordato a memoria d’uomo, un segno del cambiamento di questo nostro clima al quale si potrà dare una risposta efficace solo grazie all’impegno di tutti. Prima di tutto però un fatto che ci ha riportato tutti tragicamente davanti alla nostra fragilità, alla precarietà di ogni nostra costruzione, alla provvisorietà del nostro modo di vivere. Nessuno si aspettava di perdere la casa, le auto e i propri averi in un attimo; chi avrebbe pensato di doversi rifugiare sul tetto della propria abitazione per aspettare i soccorsi? Lo stupore e la disperazione hanno colto anche chi non aveva l’acqua in casa, tutti siamo inorriditi nel vedere la nostra terra così bella e laboriosa travolta da acque limacciose; campi ordinati, fabbriche produttive, centri storici vivi, sommersi da un colore di morte.
In tanta desolazione e lutto per le persone che la catastrofe ha portato con sé, si è assistito da subito ad un fiorire di solidarietà: oltre ai professionisti del soccorso e ai volontari della Protezione Civile sono stati migliaia quelli che hanno percorso in senso inverso le strade della fuga e si sono resi disponibili a dare una mano per liberare gli edifici dal fango, rimuovere i detriti e ridare dignità alle persone. Li hanno chiamati Angeli del fango e sono soprattutto giovani, e tanti, che hanno offerto le loro braccia a migliaia, armati di carriole, pale, secchi e degli introvabili tira-acqua. Ma loro hanno preferito il titolo di “chi burdel de paciug” “quei ragazzi…” gli amici della porta accanto, quelli che saluti sul pianerottolo oppure conosci per frequentazioni comuni, ma che nel momento del bisogno si trasformano in un aiuto formidabile, nella forza motrice che ha permesso a molti di uscire da una condizione di prostrazione e pensare a una ripartenza.
Sono questi ragazzi i primi ad essersi resi conto che era necessario rimboccarsi le maniche nell'emergenza dell'alluvione ma in generale nella denuncia del disastro ecologico e nella ricerca di un modo nuovo di vivere la natura. Loro, da troppi definiti passivi, privi di passioni, sdraiati, "divanati", hanno assunto il compito di portare sulle spalle i padri, di fare attraversare il guado a dei genitori troppo vecchi e stanchi oppure troppo egoisti per lasciare un'eredità, per non cedere all'idea che la prossima sarà ‘l'ultima generazione’.
A questi ragazzi e ragazze che ho potuto vedere con i miei occhi nei giorni trascorsi tra gli alluvionati di Castelbolognese, Lugo, Alfonsine, Conselice, Sant’Agata sul Santerno, Faenza dove mi sono trovato a sbadilare fianco a fianco, vorrei rivolgere il mio grazie più sincero perché ho avuto conferma che c’è ancora chi ama la vita e lavora duro per far fiorire il nostro mondo, contro ogni pronostico disfattista. Ai lettori di queste poche righe mal scritte vorrei ricordare quanto ne valga la pena, ad ogni età, di continuare a sperare e a testimoniare alle nuove generazioni che l’amore per gli altri, da cui prende origine il servizio, è ciò che ci rende pienamente umani, ciò che svela in noi la somiglianza con Dio.